Proteste in Cile, il racconto di un siciliano emigrato «Manca un indirizzo politico ma qui sono tutti uniti»

«No son 30 pesos, son 30 años (non sono 30 pesos, sono 30 anni, ndr)». Questo lo slogan più diffuso delle proteste che infiammano il Cile da settimane. Ed è da queste parole che parte il racconto di Rocco Amato, giovane siciliano emigrato nel paese sudamericano da otto mesi. A 29 anni ha scelto di lasciare l’Italia, in cui non vedeva alcuna prospettiva, per andare a vivere dall’altra parte del mondo. Operaio in un’industria che produce un additivo alimentare, Rocco ha lasciato la fin troppo placida Italia per ritrovarsi, inconsapevolmente, in uno Stato al centro delle attenzioni mondiali. In strada si è ritrovato a cantare Victor Jara, artista cileno molto famoso che era un fervente sostenitore del presidente Salvador Allende e fu assassinato dopo il golpe dell’11 settembre 1973, vittima della repressione messa in atto dal generale Augusto Pinochet

«A far scattare le proteste è stato l’aumento della metro nella capitale Santiago – spiega il giovane siciliano – Ma si è trattato della goccia che ha fatto traboccare il vaso, perché qui le diseguaglianze economiche e sociali sono molto forti. Sin dai tempi della dittatura Pinochet, destituito nel 1990, ma sono state confermate anche dai successivi governi democratici. Il prezzo del biglietto ha fatto venir fuori il problema dei trasporti pubblici e soprattutto privati, per le centinaia di migliaia di lavoratori che ogni giorno devono affrontare interminabili ore di viaggio da casa agli uffici o alle fabbriche. L‘istruzione poi qui è tutta a pagamento, sin dalle elementari».

Le proteste riguardano soprattutto le città più popolose del Cile: Santiago, innanzitutto, i capoluoghi di regione e anche Puerto Montt (nel sud, dove si trova Rocco). «Ci sono state sia manifestazioni pacifiche che le cosiddette notti dei saccheggi – dice – e pure scontri con la polizia. A singhiozzo le proteste continuano, con blocchi di strade e cortei per le strade. Finora però le proposte politiche per provare a sedare la rabbia della gente, sia del governo che delle opposizioni, sono dei semplici contentini. Di questo passo c’è il rischio che si continuerà a lungo. Io vivo in una zona residenziale che non è stata toccata dalle proteste, ma passando per il centro mi è capitato più volte di imbattermici».

Quel che gli analisti affermano da tempo è che il Cile dal punto di vista finanziario è una nazione in salute ma sono le persone a pagare le conseguenze di questo benessere, con la classe media che si è ritrovata parecchio indebitata a fronte di un arricchimento di pochissimi. A confermarlo è il racconto di Rocco, che parte dalla scelta di privatizzare ampie fette del welfare sin dai tempi di Pinochet. «Mi ha colpito moltissimo il sistema pensionistico – afferma – Praticamente i tuoi contributi vengono giocati in Borsa per cui puoi avere sì una pensione più ricca se le cose vanno bene ma se vanno male ti ritrovi con pensioni minime vergognose, come l’equivalente di 200 euro. Il fatto che le assicurazioni possano giocare in borsa con i risparmi delle persone mi ha scioccato. La mia compagna ha già perso tre milioni di pesos, cioè quattromila euro, con questo metodo. Questo sistema è stato istituito nel 1981, sotto la dittatura di Pinochet ma dietro suggerimento dell’economista José Piñera, fratello dell’attuale presidente Sebastian».

Eppure in Cile Rocco, al contrario di quel che avveniva per lui in Italia, ci ha messo davvero poco a trovare lavoro. «C’è un detto che recita “Il cileno è amico dello straniero”. Le persone sono molto disponibili. Quello che mi ha colpito è che il Cile è abbastanza sviluppato, tanto da non temere il confronto con gli standard europei. Insieme all’Uruguay, infatti, è il Paese più benestante dell’America Latina. Il lavoro si trova senza dover fare salti mortali. Qui non ci sono le leggi sulla flessibilità che ci sono da noi, il lavoro determinato c’è ma molto di meno rispetto all’Italia. Si protesta per il salario, non certo per il lavoro». 

Ma cosa conosceva del Cile Rocco prima di partire? A questa domanda il giovane siciliano sorride. Prima canticchia Santiagooo, imitando Piero Pelù e uno dei pezzi più noti dei primi Litfiba (col famoso verso “dittatura e religione fanno l’orgia sul balcone”, dedicato alla contestata visita di papa Giovanni Paolo II all’allora dittatore cileno Pinochet), poi si fa serio e snocciola «la storia dell’11 settembre cileno, i calciatori come Salas, capace di portentosi colpi di testa, i paesaggi e i libri di Isabel Alende e Luis Sepulveda». E a proposito dell’autore del notissimo Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, Rocco ricorda una sua intervista su ilmanifesto di qualche settimana fa: «Sosteneva che alle proteste che hanno scosso il Paese manca un indirizzo politico. Che è vero ma allo stesso tempo ciò è anche un vantaggio, perché sono tutti uniti: per strada ci sono bandiere cilene e molti cartelli a sostegno dei curdi. C’è una rabbia generica verso i potenti, anche la sinistra sembra non aver recepito i bisogni della popolazione».

Inevitabile, per una persona come Rocco dalla solida formazione comunista, il parallelismo con l’Italia. «A parte che milioni di persone per strada in Italia non si vedono da almeno 15 anni – dice – mi ha stupito che qui comunque chi protesta un lavoro ce l’ha, mentre in Italia non si scende in piazza nonostante la disoccupazione galoppante. Inoltre in Cile quando la rabbia esplode lo fa per davvero, mentre in Italia le proteste sono più timide. Qui poi c’è un forte senso della nazione, che però è diverso dal nazionalismo di destra tipico dell’Europa. Sia in casa che nei negozi si trovano numerose bandiere, mentre da noi si trovano al massimo nelle curve del Verona e della Lazio (note tifoserie con simpatie fasciste, ndr). Si tratta di una sentita identità nazionale, diversa però dal patriottismo».

Andrea Turco

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