Le minacce agli operai assunti nell’azienda confiscata Nel passato di Stanzù rapporti con boss di mezza Sicilia

«Rischi di andare a lavorare e un t’arricampi (non torni a casa, ndr)». Era questo il tenore dei messaggi fatti recapitare da Gabriele e Nicola Stanzù a coloro che pensavano di potere lavorare nelle aziende agricole loro confiscate. A esserne convinti sono i magistrati della Dda di Caltanissetta che hanno ottenuto dalla gip Valentina Balbo l’arresto dei due imprenditori. Originari di Capizzi, nel Messinese, ma attivi dalle parti di Piazza Armerina, sono finiti in carcere insieme ad altre sette persone, mentre per altri tre la giudice ha disposto i domiciliari. Per tutti l’accusa è di avere agito a vario titolo per assecondare gli interessi dei fratelli Stanzù, su tutti dimostrare di avere ancora il controllo dei beni passati allo Stato. Per fare ciò non avrebbero esitato a commissionare intimidazioni nei confronti degli operai assunti dall’amministratrice giudiziaria. Minacce che, in almeno quattro casi, avrebbero portato le vittime a rinunciare al lavoro con le scuse più varie: dalla scoperta della gravidanza della compagna e l’improvviso desiderio di emigrare all’aver capito d’un tratto di non essere fatto per quell’occupazione. «A un certo punto non voleva più venire a lavorare, pensiamo quindi che potesse avere ricevuto pressioni», ha dichiarato l’avvocata nominata dal tribunale per dirigere le aziende tolte agli Stanzù.

La storia al centro dell’inchiesta condotta sul campo dalla guardia di finanza di Caltanissetta riporta l’attenzione sulle difficoltà dello Stato nella gestione dei beni confiscati. Un tema d’attualità in più parti della Sicilia e che è finito anche all’attenzione della commissione regionale Antimafia. Stavolta, però, non si tratta di inadempienze, ma della resistenza opposta dai proprietari. Uno scontro che, per volontà di questi ultimi, non è mai stato frontale ma ha cercato vie traverse per raggiungere comunque uno scopo preciso: continuare a sentirsi come a casa propria, in barba ai provvedimenti giudiziari. E se la cena a base di porchetta organizzata dagli Stanzù in azienda, il 14 aprile 2021, è la diapositiva più emblematica, le ingerenze degli imprenditori si sarebbero manifestate sotto forme diverse: dai furti delle balle di fieno e di gasolio, tramite i dipendenti di fiducia Felice Cicero e Michele Marcellino, ai problemi creati all’amministratrice al momento di trovare la forza lavoro. Per gli inquirenti, inoltre, a beneficiare delle estorsioni sarebbero stati anche gli stessi Cicero e Marcellino, i quali, nonostante le molteplici rimostranze ricevute nello svolgimento del lavoro in azienda, di fatto si sarebbero trovati a essere insostituibili. Per via, appunto, della mancanza di alternative. «Dumani ammatina tu u chiami. Ci dici: “Ddà un c’ha ghiri! Nunn’è u to misteri…” (Domani mattina lo chiami. Gli dici: “Lì non devi andare. Non è il tuo mestiere”, ndr)». Sono le parole che, a giugno dell’anno scorso, Nicola Stanzù avrebbe suggerito a Filippo Napoli, 33enne piazzese finito in carcere. È lui, secondo gli investigatori, ad avere fatto presente a una delle vittime il rischio di rimetterci la pelle se avesse accettato il lavoro nell’azienda zootecnica tolta agli Stanzù. 

Per gli inquirenti, a rendere maggiormente incisiva l’azione di persuasione sarebbe stata anche la contiguità di Gabriele Stanzù, il maggiore dei fratelli, con Cosa nostra. Il 61enne, condannato a 14 anni per avere commissionato l’omicidio di un uomo attirato in un terreno di proprietà con la scusa di fare degli scavi, in passato è stato più volte avvicinato a diverse consorterie mafiose. Dalla famiglia di Caltagirone, guidata da Ciccio La Rocca, ai gelesi Emmanuello e al clan Madonia. Per i rapporti con La Rocca – l’efferato boss di San Michele di Ganzaria, deceduto ai domiciliari a fine 2020 – Stanzù è stato condannato a un anno e quattro mesi per il reato di favoreggiamento. Per i giudici sarebbe stato un punto di riferimento per i latitanti. A inizio anni Duemila, l’uomo fu intercettato più volte in compagnia sia di La Rocca che di Sebastiano Rampulla, boss di Mistretta e fratello di Pietro, l’artificiere di Capaci già militante della destra eversiva. Gabriele Stanzù avrebbe intrattenuto contatti anche con la famiglia Emmanuello, negli anni della latitanza di Alessandro e Daniele. Un ruolo di fiancheggiatore che gli è stato riconosciuto da diversi collaboratori di giustizia, tra cui Massimo Billizzi, l’uomo che poi uccise per conto dello Stanzù: «Ci poteva servire in quanto aveva molte conoscenze e aveva la disponibilità di vari immobili», ha raccontato in passato Billizzi ai magistrati.

Un profilo, quello del fiancheggiatore, che nell’inchiesta della guardia di finanza nissena è riconducibile alle diverse persone che si sarebbero prestate ad avvicinare le vittime da intimidire. A Stanzù, in questo caso, sarebbe spettato un altro ruolo: «U principali ‘ncazzatu è (il capo è arrabbiato, ndr)», dice Cicero parlando a un uomo i cui capi di bestiame avevano invaso i terreni confiscati. 

Simone Olivelli

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