Le ispezioni in obitorio e le perquisizioni delle salme Presidiavano ogni giorno l’ospedale con uniformi 118

Da «pezzo di merda, ti devo dare una carcagnata (una pedata, ndr)» a «ti faccio chiudere» fino a «ti ammazzo». Sono un climax ascendente le minacce che Alfredo Renda avrebbe rivolto al titolare di un’altra agenzia funebre con l’intento di scoraggiare la concorrenza per guadagnare il monopolio del caro estinto nell’area del Calatino. L’imprenditore, però, decide di denunciare tutto quando i muri della camera mortuaria dell’ospedale Gravina di Caltagirone vengono imbrattati con parole diffamatorie nei suoi confronti: accanto al suo cognome compare la scritta «ladro, compra morti». Nella denuncia ai carabinieri, l’imprenditore racconta anche di furti e danneggiamenti all’interno dell’obitorio del nosocomio finalizzati a sabotare la sua attività. E non solo la sua ma anche quelle di almeno altre tre ditte concorrenti.

A immortalare tutto ci hanno pensato sette telecamere (cinque nella camera mortuaria e due nel piazzale antistante la struttura ospedaliera) che sono state attive tra l’aprile e l’agosto del 2019. Quando una persona muore in ospedale, prima del funerale, la salma deve rimanere 24 ore all’interno della sala mortuaria. É lì che l’impresa che si occupa dei servizi funebri, allestisce la camera ardente con arredi e accessori. «Per ogni servizio da me effettuato in ospedale – racconta la vittima nella denuncia – a qualsiasi ora del giorno e della notte, li ho sempre trovati già sul posto». Tanto che è la stessa giudice per le indagini preliminari Elisa Milazzo a parlare di «occupazione militare dell’ospedale» da parte dei componenti dell’organizzazione criminosa, arrestati nell’ambito dell’operazione Requiem

«Sulla barella del defunto e sulle sedie riservate ai familiari c’erano i biglietti da visita di Renda – continua l’uomo che sarebbe stato anche vittima di una aggressione fisica da parte sua – mentre i miei erano in corridoio a terra strappati. Dalle salme mancava il tagliando di riconoscimento che viene posizionato nel polso o nella caviglia». Ma i bigliettini con le informazioni utili per accaparrarsi il servizio funebre non sarebbero state le sole cose a essere portate via: lampadine, fiaccole, candelieri, lacci per fissare le gambe e coroncine del rosario tra le mani dei morti. Più volte, poi, il crocifisso sarebbe stato distrutto e i mazzi di fiori buttati per terra. Dipendenti delle pompe funebri e familiari, in molti casi, hanno trovato le salme sistemate in modo diverso da come le avevano lasciate la sera prima. Questo perché le ispezioni quotidiane nelle sale mortuarie e le perquisizioni delle salme in cerca di oggetti preziosi sarebbero avvenuti anche in piena notte. É un medico del Pronto soccorso che, sentito a sommarie informazioni, parla di loro come di una «presenza tracotante». Mentre un ausiliario socio-sanitario racconta dei loro «atteggiamenti intimidatori e minacciosi. Si comportano come se tutto gli fosse dovuto e se qualcuno si permette di contraddirli viene minacciato. Tante volte li lasciano fare per paura di ritorsioni».

Come avvoltoi si sarebbero aggirati nei dintorni e all’interno dell’obitorio, cercando in ogni stanza e guardando sotto ogni lenzuolo e ogni coperta termica. Il presidio quotidiano in ospedale sarebbe stato assicurato da Paolo Agnello e Massimiliano Indigeno (entrambi finiti in carcere) vestiti con uniformi ad alta visibilità, molto simili a quelle degli operatori del 118, per mimetizzarsi con il personale sanitario e poter carpire, secondo le accuse, la fiducia dei parenti delle persone decedute. All’interno dell’ospedale si muovevano oramai con disinvoltura: dal bar esterno nel piazzale avrebbero tenuto sotto controllo la struttura per essere pronti a intervenire su chiamata dei dipendenti della struttura ospedaliera che, in cambio, avrebbe ricevuto 10 euro a segnalazione. In particolare, Giuseppe Milazzo – dipendente dell’Asp di Catania con il ruolo di portiere – avrebbe anche fornito il proprio pass per permettere l’accesso in aree altrimenti interdette; mentre l’autista soccorritore dipendente Seus Massimo Gulizia avrebbe messo a disposizione un’ambulanza privata. Utile per l’altro business su cui si sarebbe concentrata l’organizzazione: il trasporto dei pazienti non deambulanti. Con un tariffario ben preciso comprensivo di straordinari in caso di festività: «Stasera stocchiamo le persone, ci vogliono i numeri» dicono in occasione della festa di San Giacomo.  

Anche in questo caso, a fornire informazioni tempestive sarebbero stati un autista soccorritore del 118 e un infermiere. La scusa è l’invito a prendere un caffè, ma con estrema urgenza prima che si raffreddi. «C‘è da prendere un caffè a Caltagirone», dice l’infermiere a Paolo Agnello. «Ok, il tempo che mi vesto», risponde lui prima di chiamare Massimo Gulizia e svelare il senso della telefonata: «C’è un trasporto. Ci puoi andare?». Una dinamica che si ripete di continuo con inviti per caffè che arrivano anche alle 23.30. L’infermiere sarebbe anche stato deputato al controllo dello stato di salute dei pazienti. «É malu cumminatu (è ridotto male, in fin di vita, ndr)», riferisce nel caso di un anziano che vive in una casa di riposo. A quel punto, Gulizia gli chiede di esercitare pressioni sul medico di turno perché lo dimetta in fretta. Quando c’è un incidente, poi, la prima preoccupazione è capire «che squadra c’è», ovvero se in servizio ci sono infermieri compiacenti oppure no. 

Marta Silvestre

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