«Io sono uomo d’onore e conosco tutta Palermo… i vecchi malandrini e i nuovi e i moderni… senza offesa». Aveva un’alta considerazione di sé Alessandro Del Giudice, avvocato finito in manette nell’operazione Araldo, che ha portato alla luce un giro di usura alle porte di Palermo, da Bagheria a Ficarazzi. Un giro che sarebbe stato alimentato anche dal legale che, oltre a non averne tratto particolari benefici, è stato anche il punto di partenza per l’indagine. Perché Del Giudice, oltre ai contatti con le persone arrestate nel blitz di ieri, era anche l’avvocato di Giovanni Formoso, boss della mafia di Misilmeri, per il quale non avrebbe svolto solo la funzione di difensore, ma anche quella di postino, consentendogli di comunicare i propri ordini al di fuori del carcere di Napoli, dove è detenuto e da dove avrebbe continuato a gestire i propri affari anche a distanza. E proprio indagando su quest’ultima attività che si è riusciti a risalire alla banda di usurai.
In realtà, la strada della malavita per Del Giudice pare non avesse portato particolari benefici. Il suo ruolo sarebbe stato quello di procacciatore delle vittime, gente disperata, bisognosa di liquidità, a cui il legale, approfittando della sua professione, sarebbe arrivato a proporre la soluzione del prestito a usura (che secondo le indagini avrebbe potuto raggiungere tassi di interesse anche del 220 per cento), ponendosi come garante dell’affare, cosa che presto gli si sarebbe rivoltata contro. All’interno del sistema, infatti, Del Giudice «aveva rivestito, in origine, il ruolo di autore del reato per poi divenire – come dicono gli inquirenti – anche persona offesa, vittima dei suoi stessi complici».
E l’avvocato non avrebbe nemmeno goduto di un particolare trattamento da parte del boss Formoso: malgrado il prezioso contributo fornito, non avrebbe speso mai nei suoi confronti parole di stima, tutt’altro. Tanto che, in un momento in cui, probabilmente preda delle difficoltà economiche, aveva provato a presentare la parcella ai familiari di Formoso, la risposta del boss durante un colloquio è stata più che piccata. «Non gli deve dare niente a questo cannavazzo – diceva il boss alla moglie dopo avere saputo dell’incontro del figlio con il legale – Non gli deve dare né duecento euro, neanche cinquanta euro. Capito?». E ancora, durante un altro colloquio familiare con la moglie: «Non gli devi dare una lira, perché lui con la mia faccia è pagato. Strapagato. Non ti prendere questa briga di pagamento a questo signore, va bene? Perché io il caffè a lui gliel’ho sempre offerto. Gli ho portato quaranta, cinquanta, sessanta, cento clienti». «Vedi che se lui oggi è avvocato lo deve a tuo marito. Lo deve a tuo marito, a questo cane e mannara». Una versione confermata, in qualche modo, da Del Giudice che durante un dialogo con una collega di studio, avrebbe rivelato di avere concesso tanto a Formoso, artefice del suo periodo d’oro, visti i tanti clienti procurati.
La domanda che i familiari di Formoso rivolgevano al boss detenuto era sempre la stessa. Perché mai continuava a tenere nel suo pool di legali Del Giudice vista la poca stima? «Lui mi serve solo per cose tecniche – la risposta – Non mi serve per altro». Cose tecniche, «cose che non puoi sapere mai». Lo Giudice infatti, secondo i magistrati, sarebbe servito a Formoso «per garantirgli il costante contatto con gli altri associati e la gestione delle attività imprenditoriali fittiziamente intestate a terzi in cui aveva investito i proventi delle attività illecite». Tra i referenti principali ci sarebbe stato il fratello del boss, Pietro. «Dove sei? – diceva Pietro in una delle diverse conversazioni intercettate con il legale – Aspè che ti do un foglio di carta e glielo dai a loro, mi capisci? Glielo dai là a lui». «Una corrispondenza postale». Il prezzo da pagare, in qualche modo, per essere un «uomo d’onore».
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