Anche a Palermo gli avvocati penalisti hanno aderito all’astensione proclamata dall’Unione delle Camere penali italiane per chiedere una riforma organica del processo. Nel palazzo di giustizia del capoluogo siciliano sono saltati diversi processi tra cui quello d’appello nei confronti di Gaetano Cinà e dei figli Francesco e Massimiliano per l’omicidio Vincenzo Chiovaro e Antonino Lupo nella piazza del Borgo Vecchio, il 23 aprile 2002. L’astensione si protrarrà fino a venerdì così come stabilito dalla delibera dello scorso 3 novembre.
Sul sito http://www.camerepenali.it/ si leggono le motivazioni di questa scelta: «Contro ogni estensione degli strumenti del “doppio binario”, del regime speciale del 41 bis e dell’art. 146 bis att. c.p.p. – scrive la giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane, – manifestamente contrari ai principi costituzionali del giusto ed equo processo, utilizzati al di fuori di effettive esigenze di sicurezza e di contenimento della pericolosità e nel disprezzo della umanità del processo e della dignità delle persone, per porre al centro delle riforme una nuova idea di Giudice ed una idea di processo che non sia più una macchina palingenetica di contrasto ai fenomeni criminali, ma uno strumento democratico e laico di accertamento della responsabilità dei singoli, realizzato attraverso il potenziamento del dibattimento e del contraddittorio».
La delibera parte con una premessa relativa al« durissimo scontro fra accusatorio e inquisitorio, due culture e due modi di intendere il processo che si sono confrontati negli anni ’90, contendendosi il corpo del processo. Da un lato le sentenze della Consulta, le controriforme, la conservazione della prova e, dall’altro la riforma della custodia cautelare, il nuovo art. 111 della Costituzione, il “giusto processo” e le indagini difensive, a chiudere il decennio. Oggi queste due categorie concettuali che avevano orientato la nostra azione politica sulla strada della realizzazione della riforma del processo penale, della implementazione del modello accusatorio e del contrasto alla sua “controriforma”, non costituiscono più efficaci strumenti di lettura della evoluzione della politica giudiziaria. Il contesto – si legge ancora – appare sempre più caratterizzato da nuovi modelli processuali, da nuove esigenze e da nuove strategie che impongono a loro volta una analisi nuova che si collochi al di fuori della classica polarità “accusatorio/inquisitorio” e che tenga conto della complessità del contesto. Una complessità ed una frammentazione nella quale si fa strada un processo dotato di una nuova “funzionalità mediatica”, del tutto privato dei suoi valori, che utilizza, distorce in chiave autoritaria, il modello accusatorio e consente una crescente mortificazione della funzione difensiva, con una sovrapposizione e confusione della difesa dell’imputato con la difesa del delitto e con conseguenti inammissibili discriminazioni quali quelle poste in essere nell’ambito di recenti rilevanti processi di criminalità organizzata (come da ultimo nel processo cd Aemilia)»;
Poi il riferimento al «nuovo modulo nel quale la “rappresentazione” del processo anticipa il processo stesso: immediata diffusione delle immagini degli arresti più clamorosi (Carminati, Bossetti, ANAS …), puntuale diffusione dei materiali delle indagini preliminari dotati di particolare efficacia (audio originali delle intercettazioni, video ambientali, sequestri …). Tramite questa modalità, non solo si pubblicizza l’efficacia dell’azione delle Procure, ma si mostra il risultato dell’indagine come un dato definitivo ed indiscutibile, dotato in questa maniera di una oggettiva ed inconfutabile evidenza che si stabilizza nell’opinione pubblica, influenzandola irrimediabilmente, attraverso una inedita azione di imprinting mediatico e che condiziona ogni successiva fase del processo, fino ad intaccare irrimediabilmente la stessa verginità cognitiva del giudicante. Il circuito mediatico-giudiziario ha oramai abbandonato la sua vecchia modalità relazionale fra media e processo, per divenire un vero e proprio strumento strategico di compressione della dignità dell’indagato, di mortificazione e di condizionamento del processo. Che tali modalità hanno di recente raggiunto vertici intollerabili, risolvendosi di fatto in una inaccettabile forma di mistificazione processuale e mediatica, cui bisogna rispondere con forza chiedendo non solo l’immediato ritorno all’osservanza di tutte le regole che vengono sistematicamente ed inammissibilmente violate (…)».
Immancabile il riferimento all’«allungamento dei tempi della prescrizione finisce con l’allontanare in maniera irragionevole il reato dalla decisione. E quanto più sono gravi i reati, tanto più gli stessi sono destinati così ad essere giudicati a decenni di distanza dal fatto. Il risultato rischia di essere un paradossale ribaltamento, in virtù del quale se una volta la prescrizione sanciva la superfluità del processo a causa dell’oblio nel quale era caduto il reato, sarà ora il perdurare del processo, con i suoi tempi eterni, a costituire l’unico possibile “ricordo” del reato (…)». «E’ necessario operare una complessiva rifondazione della organizzazione del processo penale, operando una effettiva razionalizzazione delle risorse ed impedendo in radice la inutile proliferazione dei reati e dei processi, ricordando al Governo la assoluta necessità di procedere sulla via di una seria e risolutiva depenalizzazione, la cui delega è in via di scadenza (…) Non vi è dubbio che occorre ricostruire nuovi equilibri che regolino i poteri dello Stato, che rifondino il CSM – la cui presunta “autoriforma” ha, sino ad oggi, prodotto deludenti modelli volti esclusivamente all’autoconservazione – che tengano lontana la giurisdizione dalla politica e dall’amministrazione, e che ne rifondino il potere disciplinare, rendendolo efficiente ed effettivo (vedi da ultimo il caso Palermo), e che, soprattutto, introducano nuove regole ordinamentali che tengano lontane le funzioni del giudice da quelle della magistratura requirente, con ciò ponendo le basi della sua Terzietà e della sua piena indipendenza, interna ed esterna (…)». In conclusione «occorre passare dallo stato di agitazione, a suo tempo deliberato, ad un segnale di protesta più forte al fine di proclamare in maniera inequivoca il disagio della intera avvocatura penale a fronte della paventata realizzazione di riforme settoriali criticabili, anche in materia di impugnazioni, portate avanti sotto l’impulso di spinte populistiche, quali la riforma della prescrizione che rischia di portare il processo penale verso un inaccettabile allungamento dei suoi tempi, in senso contrario al principio di ragionevole durata dettato dalla nostra Costituzione, ovvero inopinatamente tratte da ipotesi di lavoro efficientistiche ed autoritarie, che incidono pesantemente sulla natura stessa del processo penale».
Il 2 dicembre si terrà a Roma una manifestazione nazionale
IL TESTO INTEGRALE DELLA DELIBERA DELL’UNIONE CAMERE PENALI ITALIANE
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