Lampedusa, falsa partenza nell’hotspot Eritrei in piazza contro l’identificazione

«Non accadeva da due anni che i migranti scappassero dal centro di accoglienza per opporsi all’identificazione». A parlare è Giacomo Sferlazzo del collettivo Askavusa di Lampedusa, dove oggi circa 50 migranti di origini eritree si sono raccolti davanti la chiesa chiedendo di lasciare l’isola. Il gruppo, dopo essere fuggito dal centro di accoglienza, ha inscenato una protesta sedata soltanto dopo l’intervento delle forze dell’ordine e la mediazione del sindaco Giusy Nicolini, che hanno convinto i migranti a fare ritorno nella struttura di contrada Imbriacola.

All’origine della fuga ci sarebbe stato il rifiuto all’obbligo di fornire le impronte digitali per il riconoscimento. La procedura rientra tra le principali novità degli hotspot, le nuove strutture che, stando alle nuove direttive europee, dovrebbero fungere da primo filtro nell’affrontare il fenomeno immigrazione. Determinando chi potrà ambire allo status di rifugiato e chi invece, non avendone i requisiti, sarà costretto a lasciare l’Italia. Condizione indispensabile per fare richiesta di asilo, però, è l’identificazione tramite le impronte digitali, pena la reclusione nei Cie, i centri di identificazione ed espulsione.
Al contempo, però, essere riconosciuti – tranne nel caso di siriani ed eritrei, per i quali l’Europa ha previsto un diverso trattamento – implica l’obbligo di rimanere in Italia, paese d’approdo. 

Ed è qui che iniziano i problemi: «Ormai è risaputo, sono pochissimi i migranti che giungono in Italia con l’obiettivo di rimanerci – commenta Sferlazzo -. La maggior parte desidera andare nel Nord Europa, ma la procedura di identificazione impedisce la libera circolazione nei paesi dell’Unione europea». Secondo il collettivo, non deve stupire il fatto che a protestare oggi siano stati cittadini eritrei, che sulla carta potrebbero rientrare nelle quote di redistribuzione previste dalla comunità europea. Con la speranza così di trovare sistemazione in un’altra nazione: «Si tratta di un trattamento speciale per siriani ed eritrei ma non significa che tutti i migranti provenienti da queste due nazioni saranno liberi di andare in un altro Paese». 

Di certo c’è che l’esperimento hotspot non sembra essere iniziato nel migliore dei modi. Come dimostrato anche dal servizio della trasmissione Gazebo di Rai3 che nei giorni scorsi ha raccontato un caso molto simile a quello verificatosi oggi. Stando alle direttive, i migranti dovrebbero rimanere nelle strutture al massimo 72 ore, tempo entro il quale gli operatori del ministero degli Interni e il personale delle agenzie europee Frontex, Europol ed Easo dovrebbero stilare un primo profilo dei singoli migranti. Il sistema, però, rischia di andare incontro a un collasso: «Gestire il riconoscimento di ogni migrante in così poco tempo è impensabile – continua Sferlazzo -. La sensazione è che con gli hotspot si possa ritornare a un innalzamento del livello di tensione all’interno delle strutture». L’identificazione a tappeto, infatti, sarebbe una novità: «In passato a Lampedusa veniva identificata soltanto una parte dei migranti. L’isola è sempre servita da laboratorio sulla gestione dell’immigrazione».

Un aumento della tensione rischia di accompagnarsi a politiche repressive: «Non è uno scenario da escludere – aggiunge -. Costringere i migranti a farsi identificare, con la consapevolezza che questo, nella maggior parte dei casi, significherà rimanere bloccati in Italia non è il modo migliore per affrontare l’emergenza».

Simone Olivelli

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