L’allarme inascoltato di Borsellino all’Antimafia E quel pc «collocato in un camerino» per mesi

«Non capisco che senso abbia farmi perdere la libertà la mattina per essere, poi, libero di essere ucciso la sera». È il maggio del 1984 e di fronte un’attonita commissione nazionale antimafia a sbottare in questo modo è Paolo Borsellino, in quel momento giudice istruttore a Palermo. Il tono di voce è ironico e allo stesso tempo pungente. È il suo modo di reagire a una frase un po’ provocatoria lanciata da uno dei parlamentari dell’epoca, che prova a rovesciare la denuncia del magistrato ucciso da Cosa nostra sulle tante mancanze che in quel momento ci sono nel capoluogo siciliano. Cose anche minime, ma essenziali. Al tribunale del capoluogo siciliano infatti, fa notare Borsellino, è negato persino l’utilizzo di un personale computer.

Il desolante quadro viene fuori dagli atti pubblicati dalla commissione nazionale antimafia che, all’unanimità, ha stabilito di desecretare i suoi lavori, dal 1963 fino al 2001. Un archivio enorme, composto da oltre 1600 documenti, che è stato digitalizzato ed è  confluito su un unico sito web, liberamente consultabile da casa o da smartphone con l’ausilio di un semplice motore di ricerca. Tra i primi atti in evidenza proprio gli audio delle deposizioni di Paolo Borsellino di fronte alla Commissione. Che testimoniano di un uomo solo, prima ancora del maxiprocesso e ben prima della strage di via d’Amelio del 19 luglio 1992. Un allarme però che per otto anni rimane inascoltato. La vicenda più emblematica, in tal senso, è quella del pc di marca Honeywell che resta parcheggiato e inutilizzato per mesi.

«Desidero sottolineare – si sfoga  in quell’occasione Borsellino – la gravità dei problemi, soprattutto di natura pratica, che noi dobbiamo continuare ad affrontare ogni giorno, facendo presente in particolare che con il fenomeno che stiamo vivendo in questo momento della gestione di processi di mole incredibile (ognuno dei quali è composto da centinaia di volumi che riempiono intere stanze) è diventato indispensabile, oltre che l’uso di attrezzature più  moderne delle nostre semplici rubriche, l’uso di un computer che è finalmente arrivato a Palermo ma che, purtroppo, non sarà operativo se non fra qualche tempo perché sembra che i problemi delle sua installazione siano estremamente gravi, anche se non si riesce a capire perché. So soltanto che è arrivato al tribunale di Palermo ed è stato collocato in un camerino. Ora stiamo aspettando». Ma quella del computer non è neanche la mancanza più grave.

«Con riferimento al personale ausiliario – spiega il giudice, sempre a maggio 1984 – desidero precisare che non si tratta soltanto dei segretari e dei dattilografi, dei quali dovremmo avere garantita la presenza per tutto l’arco della giornata e non soltanto per la mattinata (perché non lavoriamo soltanto di mattina), ma anche degli autisti giudiziari, perché buona parte di noi non può essere accompagnata in ufficio di pomeriggio da macchine blindate, come avviene la mattina, perché di pomeriggio è disponibile solo una macchina blindata, che evidentemente non può’ andare a raccogliere quattro colleghi». A distanza di 35 anni le audizioni di Borsellino aprono dunque un nuovo squarcio sulla solitudine di colui che già allora, come Giovanni Falcone, era uno dei giudici più noti d’Italia. «Tanto c’è Borsellino, se la sbrighi lui da solo.  Borsellino è abituato a lavorare, ma non sa fare miracoli» riferirà sempre alla commissione, parlando di sè in terza persona in maniera amara, lo stesso magistrato.

«Chi serve lo Stato deve avere la massima tutela da parte dello Stato» ricorda ora, in maniera un po’ ovvia, il presidente della commissione nazionale antimafia Nicola Morra. Eppure le parole più importanti arrivano, appena due anni dopo da quella prima audizione del maggio ’84, proprio dallo stesso Borsellino. Che viene riconvocato dalla commissione, in sopralluogo in Sicilia l’11 e il 12 dicembre del 1986, questa volta in qualità di procuratore della repubblica di Marsala. Ai parlamentari Borsellino lancia un altro monito, anche questo ripreso più volte nel corso degli anni ma quasi sempre dimenticato. «Oggi qui in Sicilia, presidente, stiamo vivendo un momento in cui abbiamo l’esatta sensazione di un calo generale di tensione con riferimento alla lotta e alla criminalità mafiosa – osserva – Anzitutto abbiamo avuto la sensazione che si tende nuovamente a regionalizzare questo problema e poi, soprattutto, a confonderlo con il suo momento processuale. Sotto questo aspetto forse il maxiprocesso è stato un danno perché oggi si guarda al fenomeno mafioso come quello che c’è dentro l’aula, come se tutti i problemi fossero accentrati lì. Quello, invece, è un momento repressivo, successivo, in cui il processo deve fare il suo corso, con le sue regole, i suoi giochi. Non entro in questa vicenda, però il fenomeno non è tutto lì. Lo Stato ha fatto questo enorme sforzo, ma non deve ragionare in questo modo: vi abbiamo dato il giocattolo, adesso cosa volete di più?». 

Già nell’86, dunque, Borsellino sottolinea che la lotta alla mafia deve essere trasversale, riconoscendo «l’importanza dello sforzo che è stato compiuto soprattutto dal punto di vista culturale, per cui bisogna stare attenti a non tornare indietro». Quel che preme ribadire all’allora procuratore di Marsala è «non tutti i siciliani sono mafiosi, però la popolazione locale era, volente o nolente, l’acqua che circondava con la mafia con certe abitudini, certe mentalità, con certi fatti culturali che si tramandavano da generazione in generazione. Io da ragazzo – racconta Borsellino – avevo invidia di un mio compagno perché quello diceva che aveva il nonno intisu e per me la mafia non era da rigettare. Oggi i ragazzi, invece, sono stati sensibilizzati, questa nuova generazione cresce e non bisogna disperdere tutto ciò. Invece, cala l’attenzione dello Stato». Parole tremendamente attuali. 

Andrea Turco

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