Magistrati distaccati a Palermo, contatti coi servizi segreti mai percepiti o condivisi, confronti quotidiani con Paolo Borsellino immediatamente dopo la strage di Capaci mai messi a verbale, un’agenda rossa di cui per i primi mesi dopo il 19 luglio ’92 nessuno conosce neppure l’esistenza, e che quindi nessuno cerca. C’è tutto questo nel racconto fatto oggi a Caltanissetta da Francesco Paolo Giordano, al processo a carico dei tre funzionari del gruppo Falcone-Borsellino Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata. Arriva a Caltanissetta l’8 giugno del ’92, poi viene nominato procuratore aggiunto e si insedia nel ’93. Resta a Caltanissetta fino al 2003, per poi essere applicato alla procura di Catania. «Dopo il 23 maggio il Csm dispose l’applicazione di tre magistrati, vennero fatte delle audizioni nella biblioteca della corte d’appello della procura generale di Catania. In queste audizioni tutti coloro che furono chiamati si dichiararono disponibili ad essere applicati, la procura di Caltanissetta all’epoca era costituita solo dal procuratore capo Celesti e da tre sostituti. Era una procura molto piccola, inadeguata a sorreggere tutto questo».
Giordano e Carmelo Petralia (oggi indagato dalla procura di Messina per calunnia) furono mandati da Catania a Caltanissetta. Mentre il dottor Vaccara da Messina fu distaccato a Palermo, a disposizione dell’ufficio della procura generale. «Era una questione di comodità, perché la procura di Caltanissetta aveva necessità di avere contatti continui con Palermo. Una circostanza mai più vista accadere in futuro, in effetti – rivela oggi il magistrato -. Vaccara riferiva di avere interloquito con Paolo Borsellino, con lui i contatti erano quotidiani chiaramente. Dichiarazioni mai riversate in un verbale». Una “prassi” dell’epoca che oggi appare anomala. «Io ero semplicemente un applicato», si giustifica Giordano. Lui prende servizio l’8 giugno. Il 15 luglio subentra anche Tinebra a Caltanissetta, sotto al quale l’insediamento di Vaccara a Palermo proseguì. Almeno fino all’insediamento del pool ad hoc istituito per indagare sulle stragi, il gruppo Falcone-Borsellino. Pochi giorni prima del 19 luglio, intanto, Paolo Borsellino tiene il suo ultimo discorso pubblico nell’atrio di Casa Professa. Durante il quale spiegò che non avrebbe potuto parlare di alcune cose, di cui prima avrebbe dovuto parlare coi magistrati di Caltanissetta.
«Lo appresi in diretta, ricordo che ne parlammo poi io e lui di quella frase, sicuramente lo avremo fatto, ma non ricordo i termini – spiega Giordano -. Io personalmente avevo desiderio di incontrare Borsellino, i primi di luglio ero a Roma, dovevo interrogare dei soggetti e lui invece seguiva altre piste, cercai di incontrarlo ma poi non fu possibile per ritardi di alcuni interrogatori, quindi non ci fu questa possibilità. Dallo sviluppo del traffico cellulare di Borsellino si vide che c’era un contatto con Tinebra, seppi dopo che avevano deciso di vedersi quella settimana, dal 20 luglio in poi. Sono cose che io ho ricostruito dopo». Eppure nessuno convoca Paolo Borsselino, nessuno gli chiede cosa abbia da dire in merito alla strage di Capaci. Nessuno lo convoca, nessuno domanda per 57 lunghissimi giorni. Fino al 19 luglio. La strage, l’esplosione e quella borsa rimasta praticamente integra col suo contenuto, fatta eccezione per quell’agenda rossa su cui Borsellino annotava i suoi appunti. «Ricordo che quando si insediò il dottor Cardella lui si occupò di tutta questa vicenda, la borsa del dottor Borsellino era rimasta in possesso della mobile e del dottor La Barbera, venne insomma alla luce che c’era questa borsa, questi effetti personali». Dentro la quale, come sappiamo, non c’è alcuna traccia dell’agenda.
«Il riferimento sull’importanza di questa agenda nella vita di Borsellino lo fece per primo il tenente Canale, mesi dopo. Io non avevo contezza né dubbi di una manipolazione». Insomma, in quel momento si è di fronte a un testimone che ha qualcosa da dire sulla strage di Capaci. Che però non viene sentito e che il 19 luglio muore a sua volta. Cosa fece la procura all’epoca per cercare di recuperare la memoria di Paolo Borsellino? «Mi ricordo che a un certo punto avemmo questo incarico di estrarre tutti gli elementi dai quali si ricavava l’esistenza di questa agenda rossa, poi la Dia disse bello chiaro che questi elementi si ricavano dalle dichiarazioni del tenente Canale, che gliel’aveva regalata, era quella dei carabinieri. E anche dai ricordi della famiglia – spiega -. Poi anni dopo venne fuori la famosa fotografia. Ma fino a quell’epoca si brancolava nel buio, c’erano dei dubbi: esisteva o no quest’agenda? E poi, dov’era andata a finire? All’epoca la quantità di lavoro era pazzesca, ora non voglio trincerarmi dietro delle scuse, io ero in una situazione molto frastornata, mia madre era morta il 15 luglio, un lutto gravissimo, la mia presenza si fece più discontinua in quel periodo in ufficio. Ci fu comunque una separazione dei compiti, io mi occupai della strage di Capaci». Si meraviglia infatti quando la dottoressa Annamaria Palma (anche lei oggi indagata per calunnia dalla procura di Messina) lo coinvolse in alcuni interrogatori con Vincenzo Scarantino, visto che tutte le informazioni e gli aggiornamenti sul caso specifico Giordano li apprendeva direttamente dai colleghi stessi.
«Dal ’92 al ’94 mi occupavo di tanto altro, io ero uno spettatore rispetto a quello che avveniva per le indagini di via D’Amelio – insiste oggi Giordano -. Avevo una grandissima fiducia nel dottor Arnaldo La Barbera, all’epoca uno degli investigatori migliori in Italia, era molo accreditato nell’ambito della polizia, io l’ho sentito direttamente parlare in alcune riunioni e mi sono reso conto che aveva una bella preparazione rispetto alla criminalità organizzata e Cosa nostra a Palermo. Quindi non avevo nessun dubbio, nessun sospetto, nemmeno lontanamente che lui avesse potuto fare una cosa meno che corretta». Non sa molto, quindi, delle scelte investigative dell’epoca in merito alla strage del 19 luglio. Neppure dei numerosi colloqui investigativi dei poliziotti del gruppo Falcone-Borsellino a Pianosa da Scarantino: «Le prassi all’epoca erano ancora nuove, non si era consolidata una giurisprudenza, il mio ricordo è questo». Ma colloqui di quel genere servivano originariamente per indurre qualcuno a collaborare. Scarantino collaborava già, aveva già intrapreso quella decisione, perché quindi questi tutti colloqui a Pianosa? «Forse erano mirati a degli approfondimenti, non c’è un’altra spiegazione», dice oggi Giordano.
«Parliamo di scelte investigative del gruppo Falcone-Borsellino, dei colleghi che si occupavano specificatamente di questa cosa – precisa più volte il magistrato -. Quello che sapevo, perché mi veniva detto dai colleghi, era che a un certo momento Scarantino attraverso i suoi famigliari veniva fatto oggetto di un’attività di pressione per ritrattare, ricordo che fu pubblicata sul Giornale di Sicilia la notizia di una manifestazione pubblica alla Guadagna. Quindi nel mio ricordo queste visite che venivano fatte (a Pianosa ndr) erano nell’ambito di questo discorso, per capire se era vero questo tentativo di pressione, all’epoca sembrava una manovra di inquinamento, si cercava di scongiurarla. All’inizio si riteneva, probabilmente sbagliando, che potesse essere ammissibile che gli organi cioè di investigazione e di protezione non fossero separati, come accade invece in America». E sottolinea come dal ’92 in poi quello di Scarantino rappresenti uno dei primi casi di collaborazione di un certo spessore. Nessuno, all’epoca, metteva in dubbio, poi, un effettivo ruolo del picciotto della Gaudagna nelle strage. «Se ne parlò – dice Giordano -. Che avesse avuto un ruolo magari nelle fasi tecniche, esecutive, era cognato di un mafioso (Salvatore Profeta ndr). Un ruolo magari per distrarre, questo poteva essere plausibile. Io riponevo fiducia nel fatto che se Scarantino fosse stato effettivamente inattendibile la migliore garanzia sarebbero stati i giudici che dovevano poi valutare queste dichiarazioni e queste prove».
Fatta eccezione per la dottoressa Boccassini, nessuno aveva perplessità sulle sue dichiarazioni all’epoca? «No, non riguardavano La Barbera né altri componenti del gruppo Falcone-Borsellino. Io a quel punto non avevo alcun dubbio che lui e i suoi collaboratori avessero commesso qualcosa di meno che corretto, in lui riponevo tanta fiducia – ripete -. Nessuno mai ha detto una cosa del genere, che qualcuno potesse suggerire le risposte a Scarantino, non esisteva questo discorso. Semmai c’era la questione di stare attenti alla sua memoria, che dicesse quello che gli risultava. Ma che fosse imbeccato a dire delle cose false non mi risulta nella maniera più categorica, se io avessi avuto un minimo sentore che accadeva questo, sarei intervenuto in qualche maniera», assicura il magistrato.
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