«Mio fratellone». Un modo di chiamarsi non casuale se a parlare sono due massoni. Da un lato Giorgio Cannizzaro, ritenuto un uomo di assoluta fiducia nella gestione degli affari della famiglia di Cosa nostra dei Santapaola-Ercolano, e dall’altro Corrado Labisi, vertice della casa di cura Lucia Mangano, uomo simbolo dell’antimafia catanese fatta di premi e riconoscimenti ed ex gran maestro della Serenissima gran loggia del Sud. L’uomo dai due volti ieri caduto in disgrazia, finito dietro le sbarre con l’accusa di avere distratto milioni di euro di fondi pubblici destinati ai più bisognosi. Bisogna andare indietro fino al 2013 e all’inchiesta Fiori bianchi per trovare traccia del rapporto tra Cannizzaro e Labisi. A metterli nero su bianco sono gli investigatori e i magistrati della procura di Catania, impegnati all’epoca a indagare sui nuovi assetti della mafia etnea. Labisi in quell’indagine non viene indagato ma il suo nome finisce affiancato a quello di Cannizzaro. Tra i due, scrivono gli inquirenti, «c’è un rapporto che va al di là della mera conoscenza ma una comunanza d’interessi per certi versi inquietante»
L’interlocutore di Labisi d’altronde non è un personaggio qualunque. Magistrati e pentiti lo definiscono un «elemento storico della famiglia Santapaola, almeno fin dagli anni ’80» e sulle sue spalle pesa pure una condanna a sei anni. In rapporti con il defunto capomafia Angelo Santapaola. Attivo da decenni con il mondo grigio fatto di uomini delle istituzioni, prelati del Vaticano di stanza a Roma, massoni, mafiosi e camorristi. Come quelli appartenenti allo storico e agguerrito clan dei Casalesi. In mezzo a questo calderone finisce anche Labisi e i due vengono intercettati nel 2008, quando concordano un appuntamento. Il nome di Cannizzaro viene affiancato anche all’affare Telekom-Serbia su un presunto giro di mazzette sull’asse Roma-Belgrado. Nel 2003, quando all’interno dell’aeroporto di Catania viene trovata una valigetta appartenente all’uomo, dentro vengono trovati documenti sull’inchiesta, all’epoca sotto la lente d’ingrandimento della procura di Torino.
Il vero cruccio di Labisi è stato però l’impegno antimafia e l’organizzazione di due premi. Uno intitolato alla defunta mamma Antonietta, e l’altro ai giudici Rosario Livatino, Antonino Saetta e Gaetano Costa. Negli anni, attraverso l’associazione Livatino, i riconoscimenti sono stati conferiti a questori, avvocati, magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine. Un lungo elenco di personaggi delle istituzioni spesso immortalate accanto a Labisi. Come l’ex prefetta di Catania Maria Guia Federico. Vincitrice del premio nel 2015, salvo poi riconsegnare la pergamena dopo le polemiche proprio per uno scatto mentre stringeva la mano a Labisi. Dietro tutto questo, ipotizzano adesso i magistrati, ci sarebbe stato l’utilizzo di fondi pubblici destinati ai più bisognosi.
Le attività dell’ex capo della casa di cura però non si sono fermate all’impegno per la legalità. C’è anche un capitolo dedicato al mondo dell’università. Prima come titolare della cattedra di diritto privato dell’università telematica Unisanraffaele con sede a Zurigo e poi, dal marzo 2017, come rettore. Un incarico, quest’ultimo, suggellato da una cerimonia avvenuta all’hotel Nettuno di Catania con la presenza di volti noti della città come il presidente dell’ordine dei medici, oggi nella bufera, Massimo Buscema. Accanto a Labisi, al tavolo dei relatori, il monsignore Roberto De Odorico, segretario generale della pontificia università lateranense. Sempre nel 2017 Labisi allarga, nuovamente, i suoi orizzonti con l’impegno in politica e la nascita del Movimento coscienza popolare siciliana. Non una novità assoluta perché quasi dieci anni prima era arrivata la candidatura al consiglio comunale di Catania con la lista AmoCatania, a sostegno dell’allora candidato a sindaco Umberto Scapagnini.
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