La Sicilia non è una regione per produttori di cultura «C’è un esercito di 14mila precari ridotti alla fame»

Tra i tanti settori colpiti dagli effetti del Covid, quello dei lavoratori dello spettacolo è uno di quelli, se non quello, ad avere subito la batosta più dura. Lo dicono i numeri, le date, le riaperture tardive e mai complete. Ma la pandemia in fondo non ha fatto che aggredire un comparto che già di suo non godeva di ottima salute, una sorta di regno del precariato e dell’incertezza economica, lasciandolo praticamente in fin di vita. Perché anche usciti dalla spirale delle zone rosse e dei lockdown, le cose sembrano stentare a tornare su livelli accettabili. «È vero, nessuno era preparato a tutto questo – dice a MeridioNews Maurizio Rosso, responsabile del dipartimento cultura della Cgil Sicilia, una vita dedicata al palcoscenico come ballerino di danza classica – Nessuno ha però pensato a protezioni per i lavoratori della cultura: molti sono freelance e anche i pochi che avevano un contratto, come i dipendenti delle fondazioni, non avevano ammortizzatori sociali come tutti gli altri lavoratori. Con il Covid queste persone sono in mezzo alla strada. Si è introdotto il Fis, fondo di integrazione salariale e per i freelance sono arrivati i ristori. Ma sono ben poca roba se consideriamo che solo in Sicilia ci sono 14mila addetti alla produzione culturale, tra tecnici, attori, musicisti, ballerini e altro». 

La storia recente racconta di una categoria, quella dei lavoratori dello spettacolo, che ha persino stentato a trovare una collocazione nei vari decreti per fronteggiare il lato economico della pandemia. Colpa, tra le altre cose, di una politica che negli anni ha faticato a vedere questi lavoratori. «I contrattualizzati, chi lavora nei teatri istituzionali, dove comunque ci sarebbe tanto da fare, sono comunque più protetti – continua Rosso – tutto il resto fa la fame. La cosa che mi pare terribile è il fatto che si potrebbe fare tanto e la Regione non propone niente. Dovrebbe costruire una cabina di regia, quanto meno per i siti più importanti. E costruire una programmazione pluriennale in questi centri». Uno dei gap più grossi da colmare è proprio quello della programmazione. «Abbiamo proposto e continuiamo a proporre incontri perché si possa costruire attorno a queste persone, che non giocano, ma lavorano, un sistema di regole che possa dare loro una protezione. L’impegno delle istituzioni è prossimo allo zero. La cultura non è star system, è fatta da poveracci che prendono quando va bene 800 euro al mese».

Eppure secondo il sindacalista la soluzione al problema di questi lavoratori starebbe nell’impiego e nella valorizzazione delle loro stesse professionalità: «La produzione culturale è il petrolio dell’Italia, attorno a questa ricchezza è da costruire un sistema. La Sicilia non è la Germania, noi non siamo così bravi a costruire auto, vogliamo continuare a piangere perché la Fiat se n’è andata o vogliamo guardare a posti come Londra, dove ogni sera 254 teatri aprono il sipario, con un miliardo di pound di incasso prima della pandemia? La Festa della filosofia a Modena, Carpi e Sassuolo registra 200mila presenze al giorno, mentre il teatro Massimo e il Biondo d’estate sono chiusi nel periodo estivo, con la città piena di turisti. La programmazione attuale non è mirata al turismo, ma a una sorta di atteggiamento radical chic. Gli annunci fanno colpo sui non addetti ai lavori, i dati oggettivi sono altro. A Palermo abbiamo la fortuna di avere il Brass, lo abbiamo massacrato. Un’istituzione preziosa e ignorata, perché secondo qualcuno il jazz è un genere minore. Qualcuno si lamenta dei costi della cultura, ma chi paga i danni che produce l’ignoranza?».

«Come Cgil chiediamo alla politica di costruire un progetto politico culturale – va avanti Rosso – Cominciamo con la collaborazione tra teatri, con l’introdurre la tecnologia tra i teatri, dove anche lo streaming potrebbe essere una soluzione da affiancare. Cominciamo a investire sulla cultura, a costruire quello che fanno all’estero da anni. A quest’offerta si affiancherebbe quella dell’agricoltura, del cibo, del commercio, di tutte le categorie che trarrebbero beneficio dalla mole di turismo che porterebbe. C’è invece un’ignoranza dilagante. Io stesso sono dovuto scappare di casa per studiare danza, quando qui in Sicilia potremmo avere una nostra accademia, nostre botteghe dove fare lavorare le maestranze. Potremmo produrre spettacoli per tutto il mondo e invece non riusciamo a guardare oltre. Perché non si può fare l’opera lirica al teatro greco di Siracusa? Perché non si possono dotare teatri come il Massimo di un palcoscenico girevole che consenta di mettere in scena più opere nello stesso periodo? Siracusa è un palcoscenico a cielo aperto, a Noto ogni angolo dovrebbe produrre qualcosa. Cosa sarebbe suonare la seconda sinfonia di Rachmaninov di fronte alla scalinata di Caltagirone? È vero che la produzione culturale è in ginocchio perché in Italia è sottostimata e noi non facciamo eccezione: una regione che non pensa minimamente a cosa piò fare la cultura».

Gabriele Ruggieri

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