La Sicilia festeggia lo Statuto speciale Barone: «Autonomia grande fallimento»

Lo Statuto speciale della Regione Sicilia spegne oggi 68 candeline. E il primo regalo è arrivato ieri, con l’applicazione dell’articolo 37, uno dei tanti che erano rimasti solo sulla carta. Nello specifico, la norma prevede che Palazzo d’Orleans incassi l’Ires, cioè l’imposta sui redditi prodotti dalle imprese che hanno i loro stabilimenti sull’isola. «Una cosa giustissima», secondo Giuseppe Barone, ordinario di Storia contemporanea e direttore del dipartimento di Scienze politiche dell’università di Catania. «Nei fatti – spiega il docente – significa per esempio che parte dei soldi che vengono dagli stabilimenti dei poli petrolchimici rimangono in Sicilia. Si parla, ma questo è tutto da vedere, di guadagni che variano dai 5 ai 7 miliardi di euro». Esperto di autonomia siciliana, Barone lo ammette: «Considerando le grandi libertà concesse dallo Statuto speciale alla nostra Regione, avremmo dovuto fare mirabilia». Invece, «è stato un grande fallimento».

La lunga storia dello statuto autonomistico isolano inizia il 15 maggio 1946, quando veniva concesso con decreto firmato da Alcide De Gasperi e dal re d’Italia. «Fu un atto di un’Italia ancora monarchica – racconta il professore – Nacque nell’immediato dopoguerra, prima ancora che nascesse la Repubblica, e fu inserito nella Costituzione nel 1948». Le ragioni per le quali alla Sicilia spettava l’autonomia erano in egual misura politiche e sociali: «Le condizioni di questa terra dopo le rivoluzioni locali sviluppatesi tra il ’43 e il ’45, lo sbarco anglo-americano il 10 luglio 1943, il fascismo che crollò prima qui che altrove… Insomma, tutto questo ci aveva, di fatto, separati dal resto del Paese». L’emergenza economica aveva fatto il resto. «I tumulti popolari erano continui, i viveri erano troppo costosi, si contrabbandava il grano, la Sicilia era in mano ai banditi, a Salvatore Giuliano e alla mafia». In un clima simile, il movimento separatista (Mis) di Finocchiaro Aprile – «che avrebbe gradito che la trinacria diventasse un altro degli States» – aveva largo seguito. La risposta del governo di unità nazionale non si è fatta attendere.

«Venne nominata una commissione che oggi diremmo di tecnici», prosegue Giuseppe Barone. Presieduti da Giovanni Salemi, i giuristi interpellati prepararono una bozza dello Statuto, che poco dopo venne approvato. Le sue caratteristiche fondamentali erano tre: «In primo luogo, l’ampissima autonomia che veniva concessa alla Regione, che sembra quasi uno Stato membro di una federazione, tanto da potersi permettere, per esempio, una propria Corte di cassazione e una propria Corte dei conti, e tanto da prevedere che il presidente regionale possa mantenere l’ordine pubblico tramite il controllo della polizia di Stato». Seconda peculiarità è la «riparazione finanziaria» da parte dello Stato per i torti che la Sicilia avrebbe subito durante l’unità d’Italia. «Si trattava di un finanziamento speciale per la realizzazione di opere pubbliche, calcolato sulla base di alcune imposte: ai giorni nostri, sarebbe una parte dell’Iva, per intenderci». Era il cosiddetto «riparazionismo finanziario», una norma chiaramente politica: «Calabria, Campania, Basilicata? Non avrebbero avuto bisogno di finanziamenti anche loro? Certamente, ma lì non c’erano spinte separazioniste da tenere a bada». Infine, terza e ultima particolarità statutaria, «una larga autonomia legislativa, che prevede che le leggi in merito a interi settori siano demandate a Palazzo d’Orleans». Per esempio agricoltura, lavori pubblici, industria e commercio, belle arti e ambiente. Sugli altri argomenti, invece, le decisioni vengono prese a Roma, «ma la Sicilia può dire la sua».

Una grossa quantità di privilegi, «molti dei quali mai riscossi». In parte perché il governo nazionale non ha mai delegato su affari in cui avrebbe dovuto, «in parte perché i nostri politici non sono riusciti a ottenere ciò che ci spettava, e in parte anche perché alcune istituzioni, come la Corte di giustizia siciliana, furono create e poi soppresse». Perfino i soldi per riparare ai «danni» dell’unità d’Italia non sono quasi arrivati: «Dei 68 anni che avremmo dovuto ricevere, ne sono stati inviati al massimo una ventina». Le ultime volte ai tempi di Totò Cuffaro prima e Raffaele Lombardo nel 2009/2010 poi.

«Il vero problema dello Statuto non è solo il fatto di non essere stato applicato – continua lo studioso – quanto quello di essere diventato un alibi per non adottare legislazioni nazionali più avanzate delle nostre». Come quella sugli appalti pubblici, recepita al di qua dello Stretto solo nel 2010; o quella sull’urbanistica, «per la quale una legge regionale del 1978 recepiva una normativa italiana del 1942». Da allora, nulla è cambiato, «e aspettiamo ancora vent’anni per i piani regolatori delle città». Senza contare le liberalizzazioni proposte da Pierluigi Bersani quando era un ministro del governo Prodi, «mai neanche sfiorate». Lo Statuto è, cioè, «un  modo per coprire condizioni di privilegio e di favori».

Per non parlare del «fallimento sullo sviluppo economico: non siamo riusciti a programmare, abbiamo accolto un modello imposto dall’alto, accettando i grandi poli industriali». I risultati si chiamano Gela, Priolo Gargallo, Augusta, Milazzo. «Dovevamo spendere sulla piccola e media impresa, e invece abbiamo sprecato sulle multinazionali del settore petrolchimico, che prima hanno prodotto danni ambientali e creato fabbriche di tumori, e adesso scricchiolano». Ma a tradire lo spirito statutario non c’è solo il mancato successo delle politiche economiche, ma anche la struttura stessa del governo locale: «Per i padri fondatori dello Statuto, la Regione doveva essere leggera, senza troppi impiegati, doveva dare indicazioni ai Comuni (le province non c’erano, lo ricordiamo)». E invece? «È una macchinona ingovernabile e pesantissima, sprecona e clientelare, che ha preso il modello dello Stato nazionale e ne ha copiato tutti i difetti».

[Foto di Bice Guastella]

Luisa Santangelo

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