La Sicilia come la Grecia?

In Europa è vivo il dibattito sugli aiuti da portare in Grecia per salvarla dal fallimento. Sono in campo due scuole di pensiero: una favorevole al default, tanto l’euro non corre comunque alcun rischio da quel fallimento; l’altra invece che ne paventa il coinvolgimento di tutta l’economia dell’area euro.
Si colloca in questo contesto la visita degli ispettori di Bruxelles in Sicilia per verificare i motivi che presiedono alla mancata spesa dei fondi strutturali assegnati alla Sicilia e come sono stati utilizzati quelli spesi. Di fatto, la Sicilia è stata ‘commissariata’ in materia di fondi europei. Il ministro Fabrizio Barca ha preso nelle proprie mani la situazione.
Ma, al di là dei fondi europei della programmazione 2007-2013 non ancora spesi, resta in piedi tutto il sistema creato dal precedente governo regionale retto da Totò Cuffaro. Il quale, insieme con tutta la politica siciliana di quegli anni, in assenza di qualsiasi progettualità economica, si è dilettato nel promuovere ben 34 società partecipate, ricorrendo alle forme clientelari più svariate, per di assicurarsi l’esercizio del potere.
In questo articolo cercheremo di dimostrare che la Sicilia non è in una condizione economica, finanziaria e sociale molto diversa da quella della Grecia. A cominciare dalla dilatazione incredibile della spesa pubblica per mantenere un numero imprecisato dipendenti pubblici. Basti pensare ai circa 18 mila dipendenti della Regione. A cui si sommano i precari non ancora ‘stabilizzati’. Quindi i circa 12 mila dipendenti delle già citate società partecipate dalla stessa Regione. E l’esercito di dipendenti pubblici ‘stabilizzati’ dai circa 400 Comuni dell’Isola in tutti questi anni (solo Comune di Palermo si contano oggi 19 mila dipendenti: 10 i dipendenti che erano numericamente tali nei primi anni del 2000, più i 9 mila ‘stabilizzati’ negli ultimi anni). Va da sé che con tutti questi dipendenti pubblici da pagare la Sicilia non ha dove andare. Anzi, andrà sicuramente a sbattere. E’ solo questione di tempo.
Lo scenario, insomma, è quello che è. Dopo Cuffaro, nel 2008, è arrivato Raffaele Lombardo (nella foto a sinistra in alto), un presidente che si è assunto il compito, così ha dichiarato, di ‘decuffarizzare’ la Sicilia. Lombardo ha mantenuto il suo impegno, non nel senso di attivare politiche totalmente diverse da quelle del suo predecessore, ma sostituendosi a Cuffaro (del quale, del resto, è stato sodale nei vent’anni precedenti), ovvero andando ad occupare tutti i posti di governo e di sottogoverno di Cuffaro. Posti che Lombardo ha assegnato ai suoi uomini e ai suoi alleati. Mantenendo in tutto e per tutto invariato lo ‘stile’ e, soprattutto, i contenuti del governo Cuffaro.
Il risultato, al di là delle chiacchiere, è la medesima politica di sprechi, di affarismi e di sostegno clientelare, avendo solo modificato il target degli “utilizzatori finali”. In pratica, sostituendo a quelle di Cuffaro le sue clientele e quelle dei suoi alleati politici.
Il corollario di questo disegno perverso si è perfezionato con il ‘governo tecnico’, sostenuto dal Partito democratico. Alle clientele di stampo democristiano-doroteo si sono aggiunte quelle di origine ‘sinistrorsa’ dei vari Antonello Cracolici (nella foto a destra) , Giuseppe Lumia, Nino Papania, Francantonio Genovese, Salvatore Cardinale & famiglia e via continuando. Tutti personaggi, ovviamente, che di sinistra non ha nulla. E che, anzi, con i loro comportamenti, rapprentano la negazione della sinistra.
In cosa consistono le politiche economiche del governo Lombardo? Intanto nel conservare le società partecipate per svolgere – in house (formula ‘magica’ del nuovo lessico clentelare) – le stesse mansioni che dovrebbero compiere i già pletorici organici dell’amministrazione regionale. Quindi aprendo le ‘succursali’ del governo regionale in altre province (per adesso a Catania, ma aperta la ‘maglia’ chi potrà in futuro impedire ad un nuovo presidente della Regione di aprire la rappresentanza nel Comune o nella provincia dalla quale proviene?). Poi elargendo contributi per il risanamento di edifici di culto, trascurando il fatto che a questo fine la gran parte dei cittadini italiani devolve l’otto per mille dei propri tributi. E, ancora, mantenendo un pletora di enti di formazione professionale, trascurando il fatto che esistono nell’ordinamento scolastico pubblico le scuole professionali che svolgono più o meno bene questo compito; quindi, piuttosto che potenziare queste si mantengono in attività veri e propri ‘stipendifici’ privati con denaro pubblico a mero fine di clientela elettorale e di consenso politico; alimentando e allargando sempre più l’area dello spreco e della spesa improduttiva, portando la spesa corrente all’ottanta (dicesi 80) per cento delle entrate ordinarie, cioè consumando quasi per intero le risorse finanziartie proprie in spesa improduttiva. Il tutto, ovviamente, scoraggiando l’imprenditoria privata.
La cosa che impressiona di più è che per mettere in atto queste politiche f-a-l-l-i-m-e-n-t-a-r-i sono stati scomodati dei tecnici (per lo più operatori della giustizia o dell’amministrazione, come se avessimo bisogno di esperti in materie giuridiche piuttosto che in materie economiche) e due soltanto che di questioni dell’economia dovrebbero intendersi: il professore Mario Centorrino, che non è stato assegnato all’assessorato all’Economia bensì alla Formazione professionale e l’assessore Marco Venturi, rappresentante di Confindustria.
La cosa non deve meravigliare più di tanto, poiché l’organizzazione di provenienza non è che abbia tanta esperienza in politiche industriali in quanto nelle sue fila le uniche aziende manifatturiere sono quelle pubbliche nazionali e qualche impresa privata multinazionale. Di indigeno, nell’attività manifatturiera siciliana, non c’è più nulla. Se qualcosa in Sicilia di manifatturiero ancora resiste, ebbene, questa si trova nell’artigianato. Ma è poca cosa per determinare un sistema produttivo capace di competere nel mercato globale.
Con queste premesse l’unica cosa certa è che non si va da nessuna parte. Le uniche attività ancora presenti nell’economia produttiva siciliana sono quelle agricole, quelle della pesca e qualche singola presenza artigianale d’eccellenza. Si tratta di esperienze imprenditoriali che ancora vantano la dignità di produttori e che, di fronte a tanto squallore politico, hanno dato vita al Movimento dei ‘Forconi’. Di fatto, sono tra i pochi imprenditori che lavorano e producono, pur tra mille difficoltà.
I ‘Forconi’ non chiedono soldi: rivendicano politiche economiche e fiscali che consentano loro di stare nel mercato, di essere competitivi e di sviluppare le proprie imprese. Anche perché – è il caso degli agricoltori – debbono fronteggiare una concorrenza sleale da parte di cinesi, asiatici e nordafricani. Gli agricoltori siciliani, in tutti questi anni, avrebbero dovuto essere sostenuti con i 2 miliardi di euro del Psr, sigla che sta per Piano di svluppo rurale. Ma di questi fondi, che risultano tutti ‘impegnati’, non si ha notizia. A chi sono stati erogati? E chi li intascherà? Mistero.
Ebbene, di fronte alle richieste di agricoltori, pescatori, trasportatori e via continuando, il presidente della Regione siciliana, Raffaele Lombardo, non riesce a proporre alcunché e con tanta prosopopea dichiara che i leader di questo Movimento si sono esaltati perché hanno avuto un momento di visibilità sui media. Ma si può essere più superficiali di così?
Purtroppo il livello – basso, bassissimo – della politica siciliana odierna è questo. Le risorse finanziarie che dovrebbero servire per rilanciare l’agricoltura, l’artigianato e la pesca vengono utilizzate dall’attuale malapolitica per foraggiare i precari, la finta formazione professionale e le altre clientele.
E tuttavia questo presidente della Regione gode del sostegno di quella che si autodefinisce sinistra. Chi scrive ha un’idea della sinistra che da sempre ha sostenuto il mondo del lavoro quale soggetto primario della crescita economica e civile del Paese e quindi del ruolo primario dell’impresa nello sviluppo complessivo della società. Intendendo l’impresa non soltanto come luogo di produzione della ricchezza e del profitto, ma sede della convergenza e del coagulo di tutte le risorse umane, tecnologiche, scientifiche e culturali che una comunità è capace di esprimere. Cosa resta di questa concezione nell’attuale sinistra che sostiene il governo dell’onorevole Lombardo?
Infine, una constatazione un po’ amara, ma purtroppo realistica. Di fronte ad una società siciliana che vive una realtà parassitaria – una realtà che dipende dalle ricchezze prodotte da altri altrove e trasferite per concessione dalle nostre parti – come si può rivendicare l’Autonomia di governo che presuppone una capacità autonoma di proporsi e di essere protagonista in proprio della competizione economica e civile? E in secondo luogo: come può una comunità che vive la sua esistenza in maniera parassitaria pretendere di espellere dalle proprie fila un bubbone parassitario per eccellenza quel è la mafia?
Il risultato finale di tutta questa analisi, di certo sommaria, è che la Regione siciliana, oggi, presenta un deficit strutturale di oltre 5 miliardi di lire. E non è detto che la situazione sia questa. Tant’è vero che lo stesso governo nazionale, come già ricordato, ha, di fatto, commissariato il governo Lombardo in materia di fondi europei per manifesta incapacità. Non solo. Come ha scritto il nostro giornale nei giorni scorsi, la stessa sostituzione del ragioniere generale della Regione, Enzo Emanuele, con Biagio Bossone, ha un preciso significato: a Roma vogliono vederci chiaro anche sul bilancio della Regione.
Con molta probabilità, la nomina di Bossone è concordata. Ma è concordata perché la Sicilia di Lombardo, tra precari, Comuni in buona parte al dissesto finanziario (abbiamo dimenticato di dire che i Comuni dell’Isola presentano un indebitamento, in materia di gestione dei rifiuti, pari a un miliardo e 300 milioni di euro), acqua ancora nelle mani dei privati, precari ‘stabilizzati’, formazione professionale e altre clientele versa in una situazione molto simile a quella della Grecia. Vedremo come finirà.

 

Riccardo Gueci

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