«Scusate le spalle ma sono costretto». Il commerciante bengalese fa il suo ingresso sul palco del teatro Massimo dopo un momento di buio in sala. Non è una trovata scenica, ma serve a proteggere l’anonimato. Tre anni fa ha denunciato, insieme ad altri nove connazionali, i suoi estorsori tra via Maqueda e Ballarò. Ora, nella serata che il settimanale L’Espresso ha organizzato a piazza Verdi, ha ritrovato il coraggio di uscire allo scoperto. Certo, le precauzioni sono ancora necessarie: negli scorsi giorni il tribunale di Palermo ha inflitto pesanti condanne ad otto dei nove imputati di estorsione continuata e aggravate dal metodo mafioso e dalla discriminazione razziale. E il processo di primo grado ha visto alcuni momenti di tensione. Ma dal suo racconto arriva comunque un riconoscimento al lavoro collettivo svolto e, più in generale, addirittura un ringraziamento rivolto alla città di Palermo.
«C’è voluta molta pazienza – dice il commerciante – Quando sono arrivato qui non potevo immaginare che ci fossero situazioni del genere. Ricevevo molti disturbi, c’era chi alzava le mani. Ma non capivo l’obiettivo di queste azioni. Fino a quando è arrivato qualcuno che, con molta dolcezza, mi ha assicurato che potevo stare tranquillo. Bastava pagare. La prima volta ho pagato subito, pensavo che non avrei avuto più disturbo. Pensavo che in via Maqueda, essendo più all’aperto rispetto a Ballarò, non potessero succedere cose del genere. Io vengo da un Paese dove ci sono pochi diritti umani. E quando sono arrivato qui ho creduto di trovato il paradiso. Ma quando ho aperto il negozio ho capito che c’erano altri padroni».
Gente che vuole solo lavorare, insomma, e che invece viene sempre più vessata. «Ci sono state anche minacce nei confronti della mia famiglia – spiega ancora l’uomo – Con gli altri commercianti ci siamo confrontati. E tanti avevano le mie stesse brutte esperienze. Eravamo tutti spaventati, molti negozianti sono scappati da via Maqueda. Sono riuscito a superare la paura solo quando le violenze sono diventate troppe, tra botte e minacce di morte. In un secondo momento ci siamo rivolti alla squadra mobile. Anche le parole del sindaco Orlando ci hanno dato coraggio. Prima via Maqueda era un inferno, ora invece è un paradiso. Diciamo grazie a tutti: polizia, associazioni, giustizia italiana, anche il sindaco è stato importante quando ha messo le telecamere, mantenendo le promesse. Ora anche chi è scappato vuole ritornare».
A sostenere i dieci commercianti del centro storico nella loro coraggiosa azione di denuncia i soci di Addiopizzo. Sul palco del teatro Massimo Daniele Marannano torna con la mente a quei giorni difficili di tre anni fa. Parla di «un processo senza precedenti» e ricorda l’assoluta arroganza degli aguzzini, tutti palermitani e facenti parte del clan dei Rubino. «Non è emerso che si trattassero di soggetti organici a Cosa nostra – dice l’attivista – Certo è che agivano con una violenza e una spregiudicatezza che non è nemmeno quello tipica della mafia. Ricordo i primi giorni di marzo del 2016, quando ancora nessuno di loro aveva denunciato. Ricordo i primi contatti, quanto fosse difficile entrare in relazione con loro che vivevano asserragliati nei loro negozi, chiusi da porte centralizzate. E ricordo una via Maqueda messa a ferro e fuoco, dove si susseguivano estorsioni, rapine, scippi anche ai danni dei passanti».
Sembrano passati secoli, e invece sono trascorsi appena tre anni. «Proprio in quel periodo avviene un fatto di una gravità inaudita – continua Marannano – In pieno giorno si spara a un cittadino di origini gambiane, un ragazzo. E quello è il momento in cui coi bengalesi della zona ci conosciamo. Si instaura un rapporto di fiducia che poi porta a un percorso di fiducia collettiva, alle indagini della squadra mobile di Palermo e a quegli arresti eseguiti il 23 maggio 2016. E non posso dimenticare quello che accadde successivamente. Un giorno ci siamo ritrovati davanti uno di questi negozi che avevamo seguito, stavolta con le porte spalancate. E ci siamo preoccupati. Invece il titolare ci disse che adesso si poteva fare. Ecco, la riapertura di quella porta rappresenta un simbolo: quello della riappropriazione del territorio, della riconquista di un diritto, cioè quello di lavorare in questa città senza subire intimidazioni e discriminazioni di qualunque sorta».
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