«Arrivano i pazzi criminali». Quando nel 2016 è stata aperta a Caltagirone la Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), questa era la preoccupazione di molti cittadini. Nell’immaginario collettivo è quella, infatti, la sintesi del binomio per uomini e donne che hanno commesso reati gravissimi ma che, per la loro malattia mentale, una perizia ha giudicato non imputabili per incapacità di intendere e di volere e socialmente pericolosi. «In questo periodo di pandemia – spiega a MeridioNews il direttore della residenza calatina Salvo Aprile – sono stati loro a insegnarci come affrontare le restrizioni». Già abituati a convivere con fragilità legate alla limitazione delle libertà, sono stati un esempio per chi li assiste. In qualche modo, l’emergenza sanitaria dovuta al nuovo coronavirus è come se avesse ridotto il divario tra il dentro e il fuori.
Con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Ops) – cancellati con una riforma del 2014 – in cui scontavano disumani ergastoli bianchi, nelle Rems i detenuti sono diventati pazienti e seguono un percorso terapeutico personalizzato per la loro patologia con l’obiettivo di un reinserimento nella società. A Caltagirone tutti i posti – 20 maschili e 18 femminili – sono occupati (e la lista di attesa è sempre lunga), eppure la comunità ha funzionato bene anche in chiave Covid: «Non c’è stato nessun contagio né tra gli operatori né tra i detenuti. Loro sono stati sorprendenti – racconta Carmelo Florio, il direttore del dipartimento di Salute mentale di Caltagirone – perché si sono responsabilizzati e hanno saputo trasformare un problema in una possibilità». Sospese le uscite con gli operatori e interrotti gli incontri con i familiari, tutte le attività ricreative all’esterno sono state rimodulate online.
«Come tutti hanno sofferto il non potere andare a mangiare una pizza o a prendere un caffè al bar ma – spiega Aprile – abbiamo ovviato potenziando le attività interne e i mezzi di comunicazione». Il gruppo cucina e gli incontri sull’emotività sono stati incentivati, i gruppi-famiglia si sono spostati in nel grande giardino della struttura sono state organizzate attività sportive e ricreative (anche una grigliata per il giorno di Pasquetta) e i pazienti erano liberi di videochiamare parenti e amici. «Dopo avere visto le bare di Bergamo, sono stati loro a chiederci di riflettere su quanto stava accadendo». E lo hanno fatto anche diventando protagonisti di un cortometraggio (dal titolo Anno bisesto, anno funesto) in cui hanno parlato della pandemia in chiave ironica.
«Dal ragazzo di 18 anni fino alle persone adulte, a ognuno viene cucito su misura un progetto terapeutico personalizzato – spiega la coordinatrice Fabiola Chiarenza – che dipende anche dal tipo di reato commesso. Se riguardano familiari, per esempio, il lavoro emotivo è molto più centrale ma restano invariati quelli su consapevolezza e responsabilizzazione». Per tutti i piani terapeutici, il modello si basa su un metodo comune «che segue la regola delle tre erre: rispetto per sé, rispetto per gli altri e responsabilità per le azioni». Un modello che ha funzionato anche in questo anno di Covid-19 «con delle modifiche per essere contestualizzato al periodo complesso della pandemia. In alcuni casi – afferma Chiarenza – abbiamo anche notato dei miglioramenti nei pazienti che sono stati per noi come un ponte».
Persone che ha commesso delitti gravi (come omicidi, anche di familiari) a causa della malattia mentale, ma anche chi si è ammalato stando poi detenuto dietro le sbarre. Un doppio binario che converge nelle terapie della Rems dove a camminare paralleli sono i due percorsi psicologico e giudiziario. «Non sempre i tempi della giustizia e quelli della riabilitazione coincidono – fa notare Florio – ma, già dallo scorso anno, stiamo lavorando a un protocollo d’intesa tra il dipartimento di Salute mentale e la corte d’Appello di Catania per fare in modo che i due sistemi comunichino di più e si allineino».
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