La pagoda Al Bab e il progetto arenato sul nascere «Questa è mafia tanto quanto quella che ammazza»

Parcheggiatori abusivi, prostitute, auto parcheggiate attorno e rifiuti di ogni genere, fra tutti spicca un tappeto di preservativi usati lì dove, anche se per poco, anni fa c’è stato un prato verde. E fermo al centro, in piedi dal 2004, c’è un grande tendone rosso e grigio a veglia quasi di quel che resta dell’antico quartiere mussulmano. È la pagoda Al Bab, la «porta», in arabo, che accoglie chi arriva a Palermo. Da due anni simbolo di una delle tante aree abbandonate della città. «Hanno voluto fare morire ogni progetto». Non nasconde tutta la sua amarezza, Maurizio Artale, presidente del Centro Padre Nostro fondato da padre Pino Puglisi. A costruire la pagoda quattordici anni fa è il consorzio Gruppo Sali, l’idea è quella di renderla un punto di riferimento. Un’idea però che non decolla mai, fino a quando non è proprio Artale a prendere in mano la situazione fra il 2011 e il 2012, che con l’aiuto dei detenuti affiancati al Centro di Brancaccio conta non solo nel loro reinserimento sociale e lavorativo, ma di ridare anche vita al sito archeologico.

«Abbiamo ricostruito di sana pianta la passerella, abbiamo pulito tutto con l’aiuto della Rap, bonificando l’area e rendendola fruibile – racconta – E poi tanta pubblicità, video promozionali, un’inaugurazione in grande stile. Ma all’indomani dei festeggiamenti la Soprintendenza si è eclissata, è sparita». Tutto parte da un accordo quadro firmato col Comune, che affida al Centro le aree di pertinenza, un accordo firmato anche con la Soprintendenza e col Gruppo Sali. Un accordo che però nei fatti non ha mai preso il volo. Il progetto prevedeva addirittura la possibilità di lasciare l’auto in una delle aree vicine alla pagoda, prendere il battello per trascorrere una giornata al mare con la famiglia e poi tornare indietro nuovamente ad Al Bab per godersi gli spettacoli serali. «Tutto questo fatto con volontari, detenuti, associazioni e persone coi titoli. Un’idea che puntava su un luogo dove all’epoca non c’era nulla, nemmeno quei locali che oggi sono sorti nella zona e proseguono lungo la Cala. Ma è stato tutto inspiegabilmente fermato, tutto si è arenato. E io c’ho rimesso speranze, tempo e circa 200mila euro di fondi finanziati dalla banca andati bruciati».

Persino il palco, un gigante di sei metri per tre comprato da Artale, aspettava solo di essere utilizzato. Ma passano i mesi, durante i quali la pagoda resta chiusa e inutilizzata e diventa il bersaglio di ladri e vandali. Ci vogliono otto mesi solo per avere una risposta in merito al mancato rilascio del nulla osta necessario per fare partire tutto. Una risposta che arriva troppo tempo dopo e che non porta con sé nulla di buono. «La Soprintendenza mi ha scritto una lettera per dirmi che rescindeva il contratto con me perché non ero autorizzato a fare quello che avevo fatto, come il palco. Ma io ho spiegato che era tutto scritto nel progetto, ogni dettaglio, non c’era nulla di improvvisato né di non autorizzato. Il punto è che probabilmente neppure lo avevano letto quel contratto, non sapevano cosa prevedeva, cosa ci proponevamo di fare – lamenta Artale -. Dopo averlo visionato attentamente mi hanno richiamato dicendo che non era successo niente, tutto risolto. Ma a quel punto sono stato io a dire loro che non erano degni di lavorare con me. E senza troppe scuse sono spariti tutti».

Un atteggiamento che porta il presidente del Centro Padre Nostro a denunciare la Soprintendenza, ma anche il Comune di Palermo. «Sono stati entrambi convocati dal giudice di pace, ma non si è presentato nessuno». La pagoda Al Bab, nel frattempo, resta lì, affacciata su piazza XIII vittime da un lato e sulla chiesa di San Giorgio dei Genovesi dall’altro, nell’indifferenza della città intera, ignara forse di quello che potrebbe diventare potenzialmente quel luogo. «Dopo mille peripezie ce ne siamo andati e le prostitute hanno ripreso possesso dell’area. Per me – continua Artale – è un progetto chiuso. Mi spiace molto, ci ho anche rimesso, quei soldi però sono serviti a dimostrare che era un progetto vincente e che quei detenuti che ne hanno preso parte hanno dato valore alla loro pena». Al presidente viene anche recapitata una denuncia per abusivismo edilizio: «È iniziata negli anni una sorta di guerra nei miei confronti, mi hanno accusato di essere entrato in un’area protetta, ma intanto c’era un contratto, un accordo per riqualificare quel luogo. Se non si poteva fare nulla lì, perché non fermarmi prima?».

Ma a versare in stato di abbandono non è solamente la pagoda Al Bab. Alle sue spalle, in pochi lo sanno, c’è quello che un tempo doveva essere un campo di calcetto: «Fu pagato all’epoca 200 milioni di lire dal Comune, ma è abbandonato da anni. Mi ricordo che denunciai questa situazione, anche per uscirmene fuori e spiegare che con quel pezzetto di area il nostro progetto non c’entrava nulla. Insomma, ho portato legalità in un posto dove non c’è mai stata, almeno c’ho provato – continua Artale – Ma hanno voluto far morire ogni progetto e iniziativa di riqualificazione e rinascita. E questa è mafia parimenti a quella di chi ammazza». Nulla può nemmeno l’aiuto del parroco della comunità di zona, don Giuseppe Bucaro che, anzi, a un certo punto si tira fuori anche lui: «”Ma che ci sei venuto a fare qui? Stattene a Brancaccio”, mi ha detto a un certo punto – racconta sempre Artale -. Io gli avevo detto che se voleva collaborare poteva farlo mettendo un contributo simile a quello messo dal Centro Padre Nostro. Ma non era dello stesso avviso. E tempo dopo ho saputo che aveva chiesto l’area alla Soprintendenza. Forse voleva essere l’unico lì nella zona, l’unico punto di riferimento per la comunità…chi lo sa».

Silvia Buffa

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