La moglie francese di Nino del Fortino Jacqueline, 90 anni di passione per la vita

Jacqueline Carlier è una mia amica che oggi compie novant’anni. Anzi, per dirla come mia zia Lella – che insegnava italiano ai bambini delle elementari alla scuola Bernieri negli anni ’60 (e che non rispondeva a noi nipoti se non parlavamo grammaticalmente corretto) –, dico che finirà di compiere il suo novantesimo ed entrerà nel novantunesimo. Dieci anni fa, Jacqueline ha voluto prender l’aereo e venire qui, per festeggiare il suo 80esimo sull’Etna. Una passeggiata estiva nella pineta immersa nel profumo di resina, il tramonto fino all’ultimo raggio e poi la cena con pochissimi invitati in un piccolo rifugio dal nome mitologico. In quell’occasione, facendo i conti, io avevo la metà esatta dei suoi anni e vivevo da poco la nuova stagione della mia vita: essere padre.

«Come ti senti, Jacqueline?», le domandai. Lei aveva già quattro nipoti. «Benissimo», rispose sorseggiando un bicchiere di Etna rosso doc. Jacqueline è di Lille, Francia del nord, e non sopporta due cose: la maleducazione e il pessimismo. A ottant’anni ha ripreso tela e pennello e ha ricominciato a dipingere persone, visi, espressioni – anche una di mia figlia. Perché Jacqueline vive di passioni. Non ha mai voluto imparare bene la lingua italiana, ma ha sposato Nino Raimondi, di Catania, che ha sempre chiamato Ninò. Era nato al Fortino, faceva le gare col carrettu a pallini e da ragazzo, poi alla Plaja, era bravo nei tornei a tamburelli. Andò via da Catania per Torino, dove conobbe un’affascinante ragazza bionda con la mente libera, di Lille, che lo chiamava Ninò. «Perché hai scelto un italiano, anzi un siciliano, Jacqueline?», le ho domandato adesso, ai suoi novant’anni quasi finiti. «Perché c’è la passione negli uomini di questa terra – mi ha risposto – quelli della mia terra, invece, sono… come dite voi, lisci».

Dal matrimonio con Nino, Jacqueline ha avuto due figlie, Gisella e Liliana. La prima a Torino, la seconda a Latina, seguendo i percorsi di lavoro di Nino, al quale ho voluto bene per trent’anni: era l’uomo più signorile che abbia mai conosciuto. È morto alcuni anni fa. In ospedale, l’ultima volta che lo vidi mi lasciò la sua firma dentro: quel personalissimo modo di sorridere pieno e gentile, con gli occhi strizzati ma brillanti. Era Nino 28, perché nato a Catania nel 1928, amico di sempre di mia madre e dei suoi fratelli. Mi disse così, Jacqueline, quel giorno all’ospedale di Latina: Ninò continuerà a vivere in tutti loro. Allargò lo sguardo commosso al ventaglio di figli, generi e nipoti.

Jacqueline ora si sta preparando per la Spagna, dove nel giorno del suo grande compleanno arriveranno figli dall’Italia e nipoti dall’Inghilterra e dal Pacifico, più una pronipote fresca fresca di nome Nina. «L’Andalusia è una terra che non conosco», mi spiega sempre in quel suo italiano incespicante. «Ma tu, come ti senti?», le dico. «Come se avessi cinquant’anni», mi ferma con una risata. Siamo coetanei, considero. Le do il braccio fino al posto a tavola – così faccio anch’io il galante. Schiaccio l’occhio a Liliana, che ride e ricambia chiamandomi fratellone.

Auguri, Jacqueline! Brindiamo naturalmente con qualcosa di molto buono: un’ottima birra fredda, belga, non filtrata. E mentre ne assaporo il gusto in una sera di luglio pontina, attorno a una tavola con quasi tutta la sua discendenza, penso che per vivere così a lungo e mantenendo il buon umore, oltre a un destino benevolo, occorra davvero molta passione per questa nostra vita.

Da sinistra: Jacqueline, Liliana, Annalisa (nipote), Gisella, Giulia (nipote) e Luisa (nipote); Berlino 2013
Sergio Mangiameli

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