La meritocrazia e l’Italia: campa cavallo…

di Lorenzo Ambrosetti

Per meritocrazia si intende, nell’accezione comune, il potere della intelligenza che, nelle democrazie mature, starebbe sostituendosi a quello dovuto alla nascita o alla ricchezza in virtù della funzione svolta dagli istituti educativi.

Grazie al fatto che i progressi della scuola e delle università producono sempre di più individui maggiormente capaci di affrontare i nodi complessi della società e dell’economia, si creerebbero nuove classi dirigenti che andrebbero ad occupare rilevanti posizioni di potere, obbligando anche i tradizionali gruppi dominanti ad adeguarsi.

Si supera in tal modo il principio in base al quale le posizioni dominanti in seno alla società sono attribuite per privilegio di nascita, con il principio invece in forza del quale tali posizioni sono attribuite grazie alle capacità individuali.

La meritocrazia storicamente si rifà al principio delle uguaglianze delle possibilità presente nella ‘Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789’, secondo cui i cittadini “sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti e impieghi pubblici, secondo le loro capacità e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e del loro ingegno”.

La nostra Costituzione sembrerebbe esaltare il principio del merito, poiché all’art. 3, 1° comma recita espressamente: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Mi soffermerei, un attimo, sulle condizioni personali e sociali, che sono alla base delle profonde diseguaglianze che si verificano nel nostro Paese.

E’ noto che, oggi, studia chi se lo può permettere, o meglio, chi si può permettere università che danno facili sbocchi di lavoro, come per esempio la ‘Bocconi’.

Le famiglie che non hanno redditi adeguati, e che vorrebbero garantire ai loro figli un futuro migliore, si illudono spesso che, mandandoli nelle università che danno, nei fatti, minori opportunità lavorative (anche perché non sono in contatto diretto con le aziende), risolveranno i problemi di lavoro. Un’illusione, perché, spesso, i loro figli, una volta conseguito il titolo di studio, resteranno disoccupati.

Se andiamo a guardare la galassia dei Call center ci accorgiamo del numero sempre più crescente dei laureati che essi assorbono.

Leggiamo ora il 2° comma dell’art. 3 della Costituzione: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

A leggere queste parole verrebbe quasi da ridere, a dimostrazione del fatto che l’Italia tutto è fuorché un Paese che offre ai giovani maggiormente capaci uguali possibilità lavorative.

In questo contesto suonano veramente ridicole le parole di un Ministro dell’allora Governo Prodi che parlava dei giovani come dei “bamboccioni” che si ostinano a non crescere e restano legati alla famiglia di origine in eterno.

Sono parole di appena qualche anno fa. E che dire delle recenti parole di Monti sull’assurdità di condurre un lavoro per una vita intera, lui che si è potuto permettere di cambiarne tanti, e tutti sicuramente ben remunerati?

Se il nostro Paese è allo sbando la dobbiamo anche alla mancanza di meritocrazia e di uguaglianze nelle opportunità.

Auguriamoci che in futuro qualcosa cambi.

 

Redazione

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