La mappa di Cosa nostra a 30 anni da quella di Falcone Tradizione e rituali, con un occhio ai nuovi affari online

«Cosa nostra è Palermocentrica». Non ha dubbi Salvatore De Luca, procuratore aggiunto della Dda di Palermo, che firma insieme ad altri sei magistrati il provvedimento che ha fatto scattare ben 46 misure cautelari. Culmine del blitz messo a segno ieri all’alba, che ci racconta della nuova cupola mafiosa, fedele però alle solite vecchie regole. E che ci restituisce, inoltre, quasi una fotografia, anzi, una mappa di quello che era Cosa nostra a Palermo e provincia prima di questo ennesimo durissimo colpo. Una mappa ormai diversa da quella disegnata 30 anni fa da Giovanni Falcone, aiutato dal primo grande pentito di mafia Tommaso Buscetta. Adesso, tra i mandamenti più potenti ci sarebbero, a detta dei magistrati, quelli di Pagliarelli, Porta Nuova, Villabate e Belmonte Mezzagno. Ciascuno decapitato del suo vertice di riferimento. Ma a soffrire del blitz di ieri sono ovviamente anche le famiglie che nutrono i mandamenti stessi.

Quattro filoni di indagine indipendenti, quindi, che alla fine convergono e che ci restituiscono un organismo cambiato poco negli anni, sempre collegiale, ma in grado adesso di coniugare tradizione, modernità e tecnologia. «Siamo in una fase in cui Cosa nostra si ricompatta e cerca la pace al suo interno, ecco perché collegialità e democrazia – spiega De Luca -. Cosa nostra è in difficoltà perché subisce la forte pressione dei colpi inferti dallo Stato. Nonostante venga scompaginata, però, sa riorganizzarsi in tempi relativamente brevi. Da questo tiriamo le somme che basterebbe un periodo di minore attenzione, anche solo un paio di anni, da parte dello Stato perché l’organizzazione ritorni come prima. Per riavere insomma una Cosa nostra di nuovo forte e anche sanguinaria». Il blitz sarebbe avvenuto proprio al momento giusto, verrebbe da dire. A pochi mesi dall’importante riunione del 29 maggio scorso, quella in cui a riunirsi è la cosiddetta Commissione provinciale, a sei mesi dalla morte di Totò Riina. Ed è proprio dall’arresto del padrino di Corleone che non avveniva una riunione di questa portata, di quelle, per intenderci, che determina l’indirizzo politico di tutta Cosa nostra siciliana, passando soprattutto per Palermo.

A reggere le fila della riunione, così come dell’intera organizzazione criminale secondo gli inquirenti, sarebbe stato Settimo Mineo, classe 1938, gioielliere in pensione con un passato alla spalle di condanne per 416 bis. Per i magistrati è lui il capo mandamento di Pagliarelli, ed è sempre lui che durante quella famosa riunione impone il riassetto dell’organizzazione criminale rispettando le vecchie e consolidate regole di Cosa nostra, tra tutte quella di tornare alle modalità di relazione tra i rispettivi affiliati. Direttive e linee guida, che guardano ai tempi moderni e alle possibilità offerte da nuovi canali di approvvigionamento, senza rinunciare agli arcaici rituali, uno fra tutti quelli della punciuta. È tra i mandamenti, questo, che a Palermo vanta ancora un certo peso e che comprende numerose famiglie: ci sono in ordine quella omonima, quella di corso Calatafimi, Borgo Molara e infine Rocca-Mezzo Monreale. Forte nonostante le corpose operazioni messe a segno negli anni per stroncarne la riarticolazione, dalla cosiddetta Hybris a Perseo.

A contraddistinguere questo mandamento è stata, fino ad oggi, la linearità seguita nella scelta dei nomi da porre al vertice, lasciando da parte conflittualità interne, rivalità o gelosie, che in altri contesti palermitani sono in passato sfociate in omicidi eccellenti. E sono pochi i pentiti che si contano tra le sue fila. Un mandamento quindi da immaginare come corposo e fortemente compatto e che, non a caso, in passato era rappresentato dalla compagine mafiosa dei corleonesi. Presenza, questa, che inevitabilmente ha impresso un’impronta che è durata nel tempo. Tanti i nomi di alto profilo criminale del passato, dal boss Antonino Rotolo a Giovanni Motisi. Mentre tra quelli colpiti adesso ci sono i nomi di Filippo Annatelli, Gioacchino Badagliacca, Giovanni Cancemi, Andrea Ferrante, Michele Grasso, Marco La Rosa, Matteo Maniscalco, Salvatore Mirino e Salvatore Sorrentino.

Diverse le dinamiche che hanno caratterizzato, invece, un altro mandamento di spicco della città, quello di Porta Nuova, secondo le recenti indagini capeggiato dal reuccio Gregorio Di Giovanni. Un mandamento strategico per l’intera organizzazione mafiosa, dal momento che ingloba dentro di sé famiglie di una certa rilevanza, a cominciare da quella di Borgo Vecchio, seguita da Palermo Centro e l’omonimo Porta Nuova. Che controllano di fatto il cuore di Palermo, il suo centro, il suo salotto buono. Realtà ricche di attività commerciali da sottomettere al proprio volere e dalle quali ricavare, quindi, buona parte dei proventi delle attività illecite, pizzo in testa. Anche se i padrini non hanno fatto i conti, forse, con la ribellione di commercianti e imprenditori, che hanno iniziato a collaborare con le autorità per scrollarsi di dosso la pesantezza del giogo mafioso. Un mandamento, quindi, che ha puntato tutto sull’attività estorsiva e sulle capacità intimidatorie, per così dire, dei suoi affiliati. E che vanta nomi di un certo rilievo, come quello dei fratelli Tantillo. Mentre coinvolti nel blitz di ieri ci sono Rubens D’Agostino, Giuseppe Di Giovanni, Gaetano Leto, Michele Madonia, Luigi Marino, Rosolino Mirabella, Massimo Mulè, Salvatore Pispiscia, Gaspare Rizzuto. Un mandamento dai tratti, forse, anche più violenti e irrequieti, se si pensa ad esempio all’omicidio del maggio 2017 di Giuseppe Dainotti, boss fresco di scarcerazione che ha pagato con la morte la smania, forse, di tornare ai vertici ricoperti prima dell’arresto, ignorando volontariamente il delicato sistema di equilibri vigente fino a quel momento.

Subito fuori da Palermo città, intanto, troviamo un altro mandamento di tutto rispetto, quello di Villabate, capeggiato per i magistrati da Francesco Colletti, che sarebbe stato spalleggiato da un vice, tale Francesco Caponnetto. Un mandamento, questo, legato a doppio filo a quello di Bagheria e in rapporti costanti coi mandamenti palermitani. Ma anche quello forse meno avvezzo a gestire i suoi disordini interni, specie quando si tratta di gestire le attività illecite sul territorio, preso di mira anche da criminali che non hanno mai orbitato nella sfera mafiosa. Sfregi intollerabili, che hanno portato il vertice quasi a scoprirsi, con un ritorno alle vendette violente e all’omicidio. È lui, Colletti, la chiave che permette agli investigatori che lo stanno ascoltando in segreto di scoprire la riunione segreta di maggio per discutere con i personaggi più importanti di Cosa nostra le sorti e il riassetto dell’organizzazione intera. Tra i presunti affiliati colpiti da Cupola 2.0 ci sono Filippo Cusimano, Francesco Antonino Fumuso, Fabio Messicati Vitale – che porta l’eredità di un cognome pesante, nell’ambiente mafioso – e Salvatore Troia.

Infine, c’è il mandamento di Belmonte Mezzagno, che vanta il maggior numero di presunti affiliati arrestati con l’ultimo blitz, provenienti dalla famiglia di Misilmeri. Capeggiato, secondo gli inquirenti, da Filippo Salvatore Bisconti, nome piuttosto noto alle forze dell’ordine, perché colpito negli anni da diverse operazioni. Il primo arresto risale addirittura al 1996. Con l’ultima, si fotografano soprattutto i suoi spostamenti e i suoi frequenti incontri con altri presunti esponenti mafiosi dei mandamenti palermitani. Altro che marginalità: gli affiliati di Belmonte Mezzagno sarebbero stati tra i protagonisti principali delle indagini condotte dagli investigatori, legati a molti boss, da quelli della Noce a quelli di Villagrazia. Tra gli arrestati ci sono Giuseppe Bonanno, Maurizio Crinò e la figlia Rosalba – unica donna colpita dal blitz -, Filippo Di Pisa, Vincenzo Ganci, Pietro Merendino, Giovanni Salvatore Migliore, Domenico Nocilla, Nicolò Orlando, Pietro Scafidi, Salvatore Sciarabba e Giusto Sucato.

Silvia Buffa

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