«L’ho sentita l’ultima volta lunedì sera. Ha telefonato e ha detto “Io vi amo. Me ne sto andando. Restate uniti”. Poi l’hanno portata nel reparto di Rianimazione dell’ospedale San Marco e l’hanno intubata». La mamma di Simone Gresta, 26 anni, è positiva al nuovo coronavirus e lo combatte da giorni dal letto di un ospedale. Non si sa come sia stata contagiata, «è casalinga, non esce molto di casa, solo per fare la spesa per noi e per mia nonna, che è anziana e non si può spostare». Il 22 marzo, però, ha cominciato ad avere una febbre persistente e la tosse.
Il racconto del giovane comincia da qui, dalla storia di sua madre, per arrivare a quella di suo padre: ha alcune patologie croniche e nei giorni scorsi gli è salita la febbre. Fino a 37,7, salvo poi scendere proprio quando sono arrivati i medici del 118 a visitarlo. Il test del tampone non è stato fatto né a lui né a nessun altro componente del nucleo familiare. «Non mi preoccupo per me, e neanche per la mia compagna – continua il 26enne – Ho paura per mio papà, che è un soggetto a rischio. Ho paura che se non gli fanno il tampone, se ha contratto il virus questo possa andare avanti e aggredirlo in maniera più pesante».
Il 22 marzo sua madre, 66 anni e in buona salute, ha cominciato ad avere la febbre. Quando hanno contattato il medico curante, la terapia stabilita è stata semplice: Tachipirina per vedere se la febbre scendeva. Ma niente. Per giorni la febbre è rimasta alta e sono cominciati i problemi respiratori. Il test del tampone avrebbe dovuto essere effettuato, a domicilio, appena possibile. In quella casa di Catania, in quel momento, convivevano lui, la sua ragazza, suo padre e sua madre. Sabato 28 marzo la situazione di sua madre è peggiorata. All’arrivo dell’ambulanza, il personale sanitario la prima cosa che ha fatto è stata misurare la saturazione. «Era bassa – racconta Simone a MeridioNews – Non c’era abbastanza ossigeno nel sangue. Così mia madre è stata portata in ospedale. E solo a quel punto le hanno fatto il test del tampone, assieme ad altre analisi».
Al Policlinico di via Santa Sofia, prima ancora di conoscere l’esito del tampone, è stata la Tac a evidenziare la polmonite in corso. «Hanno cominciato a darle l’ossigeno prima con la mascherina e poi con il casco – continua – Ma lunedì ancora non c’erano segni di miglioramento». Per i medici, sentiti al telefono, la scelta migliore è intubarla. «Prima che lo facessero e che la trasferissero al San Marco abbiamo ricevuto quella telefonata. La telefonata che nessun figlio vorrebbe mai ricevere da un genitore. È stato terribile». Da quel momento in poi, solo le notizie arrivate dal personale sanitario. Martedì 31 marzo le condizioni si aggravano, il cuore affaticato nonostante l’ossigeno iniettato nei polmoni della donna.
«Stamattina (ieri per chi legge, ndr) al telefono un dottore ci ha detto che il cuore è tornato alla sua attività normale. È un buon segno», afferma. Ma ai timori per la madre si aggiungono quelli per il padre: «Nell’attesa che venisse fatto il tampone a mia madre, lei è peggiorata e l’hanno dovuta portare in ospedale. Deve succedere una cosa del genere anche a mio padre? A differenza di mia madre, lui ha già problemi di salute. Prima ci hanno detto che non c’erano reagenti per i tamponi, poi che se non ci sono sintomi chiari non viene effettuato».
Il problema della mancanza di reagenti è stato affrontato nei giorni scorsi da tutte le aziende sanitarie siciliane. Risolverlo, però, non è cosa semplice. Perché, a sentire gli addetti ai lavori, non ce n’è abbastanza per tutte le persone in isolamento domiciliare né per il personale sanitario che si occupa dell’emergenza. Motivi che, a cascata, si ripercuotono sui cittadini. «Monitoriamo continuamente mio padre, stiamo attenti al minimo aumento della temperatura o colpo di tosse. Non possiamo andare avanti con quest’ansia e chissà quante altre persone sono nella nostra stessa situazione».
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