Un piccolo esercito di circa 145mila lavoratori. Molti dei quali nella piana di Catania. Sono i braccianti agricoli siciliani, addetti a un settore ancora troppo spesso tradizionale nel senso meno nobile del termine. Al di là dello sfruttamento e del caporalato – rivolto per lo più alla forza lavoro straniera – il tema della diffusa illegalità del settore era esploso durante le fasi più stringenti del lockdown per la pandemia da Covid-19. Quando l’assenza di contratti trasparenti e la conseguente impossibilità a circolare aveva fatto marcire frutta e verdura sugli alberi e per terra senza che ci fosse chi poteva raccoglierle. In mezzo, le indagini delle forze dell’ordine etnee sulle truffe all’Inps: l’ultima in questi giorni, ad Adrano, con 80 falsi braccianti indagati e il coinvolgimento di tre uomini del clan Santangelo-Taccuni, emanazione territoriale della famiglia mafiosa Santapaola-Ercolano. Pochi mesi prima, a maggio, erano finiti arrestati in 40: i falsi addetti agricoli avrebbero trattenuto per sé 20 euro al giorno, per girare il resto del sussidio di disoccupazione ai gruppi della criminalità organizzata di Paternò e Belpasso.
Al centro c’è sempre lo stesso strumento: la disoccupazione agricola. Che in tutta Italia ammonta a circa un miliardo e mezzo di euro all’anno per mezzo milione di persone. Il sistema è semplice: l’Inps eroga il 40 per cento della retribuzione di riferimento in base al numero di giornate lavorate. La loro somma con i giorni di disoccupazione non può superare 365 e, così, per ottenere il massimo del contributo, la corsa è a raggiungere le 180 giornate di lavoro certificate. È qui che si apre un mondo di illegalità diffusa, a tinte più o meno scure. Si va dai veri braccianti che pagano di tasca propria le giornate ai datori di lavoro, così da assicurarsi la cifra più alta del sussidio, a chi lavora in nero mentre percepisce la disoccupazione. E ci sono infine i falsi braccianti, spesso assunti da aziende anch’esse inesistenti se non sulla carta.
Un sistema che non convince nessuno, ma che è e rimane una consuetudine, perché ancora indispensabile. «La maggior parte dei braccianti siciliani è gente onesta, spesso con un reddito bassissimo, che ci permette di mettere il cibo in tavola e va tutelata», commenta Tonino Russo, segretario Flai-Cgil Sicilia, ospite all’interno del programma Direttoradaria su Radio Fantastica. Il riferimento è alla stagionalità del lavoro agricolo, che crea occupazione solo in certi periodi, ad esempio quello della semina, della potatura o della raccolta. Eppure, per il sindacato, una soluzione ci sarebbe: «La Regione siciliana può legiferare in tema di collocamento – continua Russo – per questo chiediamo da tempo una norma che assegni ai centri per l’impiego l’incontro tra domanda e offerta di lavoro in campo, com’era una volta». Una gestione pubblica delle chiamate, insomma, «perché al momento c’è un vuoto e, quando manca lo Stato, la criminalità organizzata si inserisce per fare business».
Così si arriva all’altro grande tema: i controlli, sempre troppo pochi, anche per mancanza di risorse e di sinergie. «L’Inps, ad esempio, sa quanti ettari vengono coltivati e quante giornate di lavoro vengono dichiarate – spiega il sindacalista – Basterebbe guardare questo indice di congruità per capire se in quella azienda si regolarizzano più o meno giornate di quelle necessarie». E i controlli sono una parte necessaria della ricetta anche per Andrea Valenziani, presidente di Rete InCampagna, realtà produttiva siciliana che raggruppa decine di imprese agricole dell’Isola. A cui si aggiungono le ricadute sociali – sui lavoratori e sulle tasche di tutti i cittadini – ma anche la scarsa convenienza per le stesse aziende. «Abbassare i costi di produzione e sfruttare le risorse, umane e territoriali, sembra sempre conveniente nel breve periodo – chiarisce Valenziani – ma, soprattutto nei mercati extra europei, ci sarà sempre qualcuno con costi più bassi dei nostri. La vera concorrenza si ottiene con la qualità: del prodotto e dei processi produttivi». E, per un lavoro di qualità, servono lavoratori preparati. «Altrove il bracciante ha una laurea triennale e sostituisce per alcuni aspetti gli agronomi, mentre qui c’è ancora il padrone che possiede il bene e usa il bracciante per farlo fruttare».
La soluzione, per l’imprenditore, passa dalla formazione: che, nel caso di Rete InCampagna, mettendo insieme le necessità e le stagionalità delle produzioni di diverse aziende, permette di impiegare il personale tutto l’anno, con contratti a tempo indeterminato. Dalla raccolta al magazzino, passando per la potatura professionale. «Per creare un’alternativa noi abbiamo dovuto fare un investimento sul personale da soli – conclude Valenziani – Se invece ci fosse una sinergia tra istituzioni, centri per l’impiego, sindacati e aziende si potrebbero creare dei circuiti per la formazione e l’inserimento lavorativo. Uno sforzo che non può essere solo a carico delle imprese, che però devono essere coinvolte prendendo coscienza della loro responsabilità sociale».
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