La mafia degli anni ’70 negli atti desecretati dall’Antimafia Tra omicidi eccellenti, fatti aberranti e sfiducia della gente

«È inoltre da evidenziare come la “vecchia mafia”, tra caduti e detenuti, sia ormai in minoranza e prevalga, invece, numericamente la “mafia giovane” che ha subito una evoluzione nel modo di pensare e di agire e che tiene sempre meno conto di quei valori spirituali e morali, nonché di quel rispetto che un tempo esisteva verso lo Stato e verso organi che ne erano la più diretta espressione». È uno stralcio che da oggi si può leggere nel verbale di denuncia a carico di Giuseppe Albanese +65 datato Palermo 6 giugno 1971. Uno degli atti desecretati e resi pubblici dalla Commissione parlamentare antimafia, che restituiscono un quadro preciso e dettagliato di Cosa nostra di quell’epoca, in piena fase di riassestamento dopo l’inedita pax mafiosa durata cinque anni, dal ’63 al ’68, e alle prese con un’azione sempre più repressiva da parte dello Stato. Un quadro che si avvale delle analisi, tra gli altri, anche del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e Boris Giuliano.

«Vengono pubblicati per la prima volta – spiega il presidente della Commissione Nicola Morra – quattro documenti, costituiti dal verbale di denuncia del 6 giugno 1971 e dai rapporti giudiziari del 20 settembre, 26 ottobre e 15 luglio 1971, che furono redatti in un momento assolutamente particolare per la storia di Cosa nostra, in seguito ad indagini congiunte, da alcuni uffici di polizia giudiziaria dell’arma dei carabinieri e della polizia di Stato della città di Palermo e che furono firmati, tra gli altri, da Carlo Alberto Dalla Chiesa (ucciso a Palermo il 3 settembre 1982) e da Boris Giuliano (ucciso il 21 luglio 1979)». Il primo documento prosegue alludendo proprio all’indole sempre più spietata della mafia dell’epoca, contraddistinta da una «smodata e immediata sete di guadagno tale da determinare un sistematico ricorso all’illecito e l’uso di sistemi sempre più audaci e spregiudicati» tramite i quali «imporre alla collettività il sopruso e la sopraffazione di tale minoranza asociale».

Traffico internazionale di stupefacenti, contrabbando di tabacchi, sfruttamento delle aree edificabili con relative attività connesse e sfruttamento di ogni altra risorsa economica e produttiva. Erano questi gli irrinunciabili affari dell’epoca. «L’opinione pubblica e forse gli stessi inquirenti hanno finito con il sentirsi impotenti di fronte a tali manifestazioni, per la cui repressione si sono avute soltanto affermazioni di principio, ma non stiramenti o tempestivi esempi di concreta volontà per la neutralizzazione del loro sussistere – si legge nel primo atto -. Ciò anche quando si sono dovute registrare altri gravissimi eventi che gran parte della pubblica opinione ha voluto attribuire allo strapotere mafioso». Eventi come la scomparsa del giornalista de L’Ora Mauro De Mauro, sparito il 16 settembre 1970 o i tentati atti dinamitardi della notte di Capodanno del 1971 al municipio di Palermo, all’Ente Minerario Siciliano, all’assessorato regionale Agricoltura e foreste, e contro gli assessorati regionali del Lavoro e della Sanità, «i cui ordigni esplosivi sono risultati essere stati approntati nel fondo “S.Gabriele” di Pallavicino di pertinenza dei Madonia, indiziati di appartenenza alla mafia». Per non parlare dell’omicidio del procuratore Pietro Scaglione, ucciso il 5 maggio 1971  insieme al suo autista Antonio Lorusso in via dei Cipressi.

«Fatti, questi, che non hanno precedenti nelle manifestazioni criminose dell’isola – si legge nel documento del ’71 -, perché appaiono talmente aberranti da far ritenere che si agitino o si occultino a monte degli esecutori materiali grossissimi interessi ai quali non sarebbero estranei ambienti e personaggi legati al mondo politico ed economico-finanziario e che, in forma più o meno occulta, hanno fatto ricorso, dal dopoguerra in poi, a sodalizi di mafia per conseguire iniziali affermazioni nei più svariati settori per garantire quanto via via acquisito, per speculare sugli ulteriori locupletamenti. La piovra della mafia che già contava ramificazioni all’estero, si è estesa in molte località del territorio nazionale». Le pronunce dell’epoca, del resto, determinarono degli effetti sigli assetti criminali della mafia palermitana: da un lato, quella di conferire «più rinnovato prestigio ed autorità a quanti ne erano usciti indenni» e, dall’altro, il devastante incremento di quella sfiducia dell’opinione pubblica, oltre all’«Inevitabile solidarietà di massa, scaturente da quelle ferree leggi dell’omertà in cui la popolazione è, via via, ripiombata unicamente per effetto di scoramento connesso alle inaspettate assoluzioni o alle miti condanne nei gravi processi celebrati fuori dell’isola».

I boss, «siano essi latitanti o detenuti o soggiornanti obbligati o residenti in altre sedi, continuano ad operare a livello direttivo ed esecutivo, avvalendosi di ogni mezzo – si legge nel primo documento -: i colloqui con i famigliari per i detenuti, il frequente ricorso alle telefonate in teleselezione, i contatti diretti nelle zone più varie, l’uso di mezzi celeri di locomozione quali l’aereo, l’utilizzo di documenti falsi per consentire spostamenti di ricercati o eludere controlli, il loro intervento a riunioni di vertice. Alle loro attività apparentemente lecite o certamente illecite, poi, si aggiungono vecchi rancori, regolamenti di conti, gli impegni non mantenuti, le rappresaglie non ancora portate a termine nel ’63. Si avrà allora un quadro chiaro che non solo proietta una luce su quanto è accaduto, ma soprattutto su quanto certamente dovrà ancora accadere». Quello mafioso, in queste carte, è descritto come un vero e proprio «virus», che si propaga per mezzo di un’«agguerrita e spietata associazione per delinquere, i cui componenti, siano essi “capi” o “soldati sanguinari” sono tutti stretti tra loro da ferrei legami associativi, tesi con una attività ad effetto convergente a collaborare per lo stesso unico fine, conforme al “vinculum sceleris” dell’organizzazione».

Silvia Buffa

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