Istigazione al suicidio. È questa l’accusa che la procura di Catania muove contro Antonino Raddusa e Giuseppe Tornatore, rispettivamente 59 e 64 anni. Stamattina, in tribunale, davanti alla giudice Marina Rizza, si è tenuta l’udienza preliminare per discutere se i due agenti dovranno essere processati oppure no, ma la decisione è stata rinviata al 9 marzo. Sono i vigili urbani che erano in servizio la mattina del 19 settembre 2014 quando, nel corso di un controllo antiabusivismo in piazza Risorgimento, il fruttivendolo ambulante Salvatore La Fata si è dato fuoco per opporsi al tentativo di sequestro della merce da parte della polizia municipale. L’uomo, 56 anni, aveva riportato ustioni di secondo e terzo grado sul 60 per cento del corpo ed era morto all’ospedale Cannizzaro dopo undici giorni di agonia. Da subito la versione dei testimoni si era mostrata diversa rispetto a quella fornita dalla polizia municipale. «Lo hanno istigato», dicevano i commercianti della zona. Adesso, dopo un esposto in procura presentato dalla famiglia di La Fata, la magistrata Agata Consoli porta in aula i due dipendenti del Comune.
«Perché in qualità di pubblici ufficiali, in concorso tra loro, rafforzavano il proposito suicida di Salvatore La Fata», si legge nella richiesta di rinvio a giudizio che avrebbe dovuto essere discussa questa mattina. E che, come atteso, è stata rimandata. Secondo la procuratrice, alla minaccia di uccidersi espressa dal 56enne, Antonino Raddusa e Giuseppe Tornatore hanno risposto: «Datti fuoco ma spostati più in là». Una frase, scrive Consoli, che ha avuto come reazione l’allontanamento di La Fata per trovare della benzina, buttarsela addosso e appiccare le fiamme. Quello del carburante è uno dei punti ancora oscuri della vicenda: non è mai stato chiarito se l’uomo l’abbia acquistato al rifornimento Eni poco distante o se, invece, ne avesse una bottiglia da parte all’interno dell’automobile. Quest’ultima è la versione sostenuta dai titolari della pompa di benzina, che hanno sempre evitato ogni coinvolgimento.
Anche il corpo dei vigili urbani di Catania aveva tentato, in un primo momento, di rimandare al mittente ogni accusa. «Gli hanno detto “Non darti fuoco”», era stata la difesa del comandante Pietro Belfiore. A dare una versione diversa, però, sono i tre testimoni sentiti dalla procura etnea. La prima, una donna, si è fatta avanti immediatamente. Gli altri due, invece, sono arrivati dopo la trasmissione televisiva Chi l’ha visto? dedicata al fatto catanese. Un anno dopo il suicidio, la questione arriva nelle aule di piazza Verga. A difendere gli interessi della famiglia La Fata è l’avvocato Francesco Marchese. I due componenti della polizia municipale, invece, sono difesi dai legali Pietro Marino e Salvatore Verzì. Quest’ultimo, peraltro, conosce bene i meccanismi della polizia annonaria: prima di dedicarsi alla carriera forense è stato per anni dirigente del nucleo antiabusivismo dei vigili urbani del Comune di Catania.
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