Nessuna replica. Si chiude così, senza colpi di scena, l’ultima udienza del processo d’Appello sulla confisca dei beni di Mario Ciancio Sanfilippo. Ultimo atto di un lungo iter cominciato un anno fa, quando il tribunale misure di prevenzione, accogliendo le richieste della procura di Catania, decise di togliere all’editore ed ex direttore del quotidiano La Sicilia beni per un valore non inferiore a 150 milioni di euro. Nel decreto di sequestro e relativa confisca finirono immobili, conti correnti e 38 società. Tra queste anche quelle che fanno parte dell’impero editoriale, tra quotidiani, radio ed emittenti televisive.
I giudici di secondo grado – la corte è presieduta da Dorotea Quartararo, affiancata da Antongiulio Maggiore e Antonino Marcello – potrebbero decidere entro qualche settimana, probabilmente prima della fine del 2019. Sul tavolo ci sono le richieste dell’accusa, rappresenta in questi mesi dalla procuratrice generale Miriam Cantone e dal sostituto procuratore applicato Antonino Fanara. Secondo i magistrati 17 società, tra immobiliari e agricole, possono essere restituite all’editore. Discorso diverso per le altre 21, tra cui quelle che controllano quotidiani e televisioni, affidate agli amministratori giudiziari Luciano Modica e Angelo Bonomo.
Durante tutta la vicenda che riguarda i beni di Ciancio sono stati inevitabili gli intrecci con il processo per concorso esterno in associazione mafiosa. I magistrati, senza giri di parole, hanno parlato di un presunto patto riservato che avrebbe messo allo stesso tavolo Ciancio e la famiglia mafiosa di Cosa nostra dei Santapaola-Ercolano. In un’inchiesta patrimoniale, in particolare con una corposa consulenza fiscale affidata alla Pricewaterhouse Coopers, che ha scavato negli affari dell’editore a partire dal 1976. In pratica l’intero percorso da imprenditore di Ciancio, che secondo l’accusa sarebbe stato portato avanti a braccetto con i Santapaola anche sfruttando la linea editoriale del suo quotidiano.
Posizioni nettamente diverse quelle dei suoi difensori: gli avvocati Carmelo Peluso e Francesco Colotti. Fermi nel chiedere il dissequestro dell’intero patrimonio, con l’editore che secondo la loro linea difensiva sarebbe vittima di un clamoroso errore giudiziario. Ad accusare Ciancio ci sono pure 12 collaboratori di giustizia. L’ultimo a entrare in questa lista è stato Francesco Squillaci che ha raccontato i dettagli di un falso attentato a una villa nel quartiere Canalicchio.
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