La coca dei narcos nascosta in una casa ad Acireale Come il cartello di Sinaloa voleva inondare la Sicilia

«Questa è tutta colombiana. Non c’è bisogno di odorarla». La mattina del 12 gennaio ad Acireale c’era già aria di attesa, i preparativi per l’organizzazione della festa di san Sebastiano iniziavano a entrare nel vivo. Quel giorno, però, ad animare Daniel Esteban Ortega Ubeda è ben altro: gli occhi del 34enne, originario del Guatemala, sono fissi su quattrocento chili di cocaina purissima. La droga si trova sotto un lenzuolo, nel salone di una palazzina a due piani, a meno di un chilometro dalla basilica. Tito, così viene chiamato, non è solo. Accanto ha tre persone con le quali condivide un compito preciso: smerciare la cocaina per conto del pericoloso cartello messicano di Sinaloa.

Nella maxi-inchiesta Halcon sul narcotraffico intercontinentale, che dalla Colombia e dal Messico arrivava fino alla Sicilia, la città di Acireale, come accertato da MeridioNews, ha un ruolo fondamentale. È proprio nella città dei cento campanili che gli uomini del Flaco, all’anagrafe Jose Angel Rivera Zazueta, avevano individuato il luogo in cui custodire la cocaina in attesa di essere ceduta agli acquirenti. Ovvero i primi anelli di una filiera che al dettaglio avrebbe potuto fruttare oltre 30 milioni di euro.

A bloccare tutto sono stati però gli uomini del gruppo operativo antidroga e del Gico della guardia di finanza di Catania, con la collaborazione delle autorità colombiane e spagnole. L’inchiesta ha fatto scattare sette mandati di cattura europei, tre dei quali non eseguiti. Tra i ricercati c’è proprio il Flaco. L’uomo è considerato tra i più vicini a Ismael Zambada Garcia, il 71enne conosciuto come el Mayo, che fino al 2016 ha guidato il cartello di Sinaloa insieme a Joaquin Guzman. El Chapo, per i più. E proprio la figura del super-narcotrafficante messicano, a cui sono stati dedicati documentari e serie televisive, viene citata dal Flaco nella fase preparatoria della spedizione del carico di droga.

L’uomo, a inizio giugno dell’anno scorso, arriva a Catania accompagnato da una donna. Ma, nonostante i caffè a piazza Università e il pranzo con veduta sul castello Ursino, si tratta di un viaggio di lavoro. Per la precisione, avrebbe dovuto incontrare la persona che già qualche mese prima gli aveva garantito un ingresso sicuro in Sicilia, tramite lo scalo di Fontanarossa, con la garanzia che la cocaina sarebbe passata inosservata, lontana dal fiuto dei cani antidroga. Per quel volo intercontinentale, il Flaco assicura che il cartello di Sinaloa avrebbe messo a disposizione il pilota di fiducia del Chapo. Stando alle carte dell’inchiesta, le indecisioni avrebbero invece riguardato la rotta da seguire: in un primo momento, il narcotrafficante immagina che il carico avrebbe dovuto viaggiare su un aereo privato, facendo scalo tecnico in Olanda prima di arrivare a Catania; poi la tappa intermedia viene ipotizzata a Capo Verde. Alla fine, però, il programma viene stravolto: il gruppo criminale sceglie di piazzare i quattro quintali di cocaina su aerei di linea, spezzando la tratta in più scali. Per la precisione si scelgono aerei cargo della compagnia Iberia per arrivare da Bogotà a Madrid, e dalla capitale spagnola a Roma. Da qui, la volata verso Catania con Alitalia.

In questa strategia, secondo gli inquirenti, ci sarebbe anche la risposta alla domanda più importante: perché i narcos messicani hanno scelto proprio l’aeroporto di Catania? La valutazione, infatti, non avrebbe riguardato soltanto un livello inferiore di controlli, ma anche l’obiettivo di mascherare la spedizione attraverso viaggi intermedi, di difficile ricostruzione. Dopodiché, messa al sicuro la cocaina nello stabile acese, il passo successivo sarebbe stato quello di contattare gli acquirenti, sparsi in più parti d’Italia ma non solo. E così se Milano e Verona vengono indicate in codice come Milagros e Veronica, è a Barcellona che avrebbero operato il sanremese Mauro Da Fiume e lo spagnolo Sergio Garcia Riera. I due vanno in Veneto per incontrare Tito e Felix Ruben Villagran Lopez, i due guatemaltechi incaricati di portare al Nord campioni dello stupefacente. Piccoli assaggi che avrebbero preceduto spedizioni più corpose.

In realtà, la stessa spedizione di quattro quintali per il cartello di Sinaloa sarebbe stato un mero esperimento. Nonostante per raccogliere il carico abbiano partecipato parecchi esponenti del narcotrafico colombiano, tra cui un uomo indicato come un guerrigliero delle Farc, e la cocaina provenga da diversi laboratori nascosti nella giungla, l’intenzione del Flaco era quella di testare l’affidabilità del canale. Superato il test, il cartello sarebbe stato pronto a fare arrivare a Catania una tonnellata e mezza di polvere bianca. Normale amministrazione, a sentire i narcotrafficanti. «Dalla parte del Chetumal partono 35 voli a settimana. Stanno lavorando con i militari. Voli da 500-800 chili», commentano gli uomini del Flaco, mentre cenano in un ristorante della movida catanese. Ma anche a pochi passi dagli uffici in cui i militari del Gico li stavano ascoltando.

Simone Olivelli

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