«Io, sopravvissuto al mare e alle pallottole» La storia di Hashem, dalla Siria a Catania

Hashem, 22 anni, viveva a Duma, in Siria ed è arrivato a Catania a metà ottobre. È il sopravvissuto numero 145 dell’imbarcazione partita dalla Libia il 10 ottobre, su cui i libici hanno sparato, uccidendo alcuni uomini. Il barcone aveva 430 persone a bordo di cui solo 220 si sono salvate.

Hashem, madre palestinese e padre siriano, faceva il volontario, aiutava gli sfollati di Damasco. Un giorno suo padre decide che lui deve essere il primo della famiglia a scappare dalla guerra e trovare riparo in Europa. Il suo nome, infatti, è già nella black list del regime siriano: lo deve alla sua attività di volontario a Duma, una delle prime città a manifestare contro Bashar al-Assad, come dimostra anche questo video amatoriale. Il prezzo da pagare sono 20mila lire siriane (circa 105 euro con il cambio attuale, ma la guerra provoca quotidiani cambiamenti, ndr) per un passaporto falso, ma il primo tentativo non va bene. Hashem viene preso e arrestato. Ci prova una seconda volta, altre 20mila lire siriane. Riesce a passare il confine con il Libano. Non c’è speranza di scappare con un volo. L’aeroporto di Damasco è off-limits, sembra un campo militare, l’unico modo per uscire dal Paese è andare via terra. «Chi entra all’aeroporto di Damasco o esce morto o è risorto», racconta Hashem.

È costretto a restare circa due mesi in Egitto. L’obiettivo è la Libia, dove però il governo non lascia entrare siriani celibi. Paga per un permesso che gli permette di aggirare i controlli e alla fine riesce a prendere un volo per Tripoli. La Libia è l’inferno. Il trattamento riservato agli stranieri in genere è pessimo: vengono denigrati, insultati e ad alcuni vengono persino strappati i passaporti. «Un libico mi disse che noi siriani avevamo invaso il loro Paese; risposi che non ero contento di trovarmi lì ma che lavoravo e vivevo dignitosamente», ricorda Hashem, che a Tripoli lavora per un periodo come fotografo, giusto il tempo di trovare il modo per proseguire il viaggio verso la Svezia. Quando è pronto si dirige a Zuwarah, città portuale nel Nord-Ovest della Libia. Insieme a lui ci sono due amici, uno zio e due cugini. I contrabbandieri li trasferiscono in un casolare dove rimangono rinchiusi per giorni con un altro centinaio di persone. «Vedevamo i nostri carcerieri solo al mattino, quando ci portavano l’unico pasto della giornata», dice Hashem.

L’attesa finisce il 10 ottobre, quando, dopo essere stati caricati su un camion frigorifero, Hashem e gli altri vengono abbandonati in mezzo al deserto. «Correre», è l’unica indicazione che lasciano i contrabbandieri prima di scomparire dietro le dune. «Per un’ora e mezza abbiamo corso sulla sabbia – racconta Hashem – il sole era cocente, ero così stanco e debole che cadevo continuamente, gli altri mi aiutavano, mi spingevano per farmi proseguire, mi prendevano per il braccio, il mio fisico non reggeva e stavo per svenire».

Ad aspettarli sulla spiaggia ci sono alcuni uomini con piccole imbarcazioni. «Quando ho visto quel peschereccio fatiscente che cadeva a pezzi, mi è venuto lo scoramento, ci avevano promesso che saremmo partiti con una nave che trasportava marmo. Ma poi ho pensato che avrei lasciato la Libia persino sul dorso di un delfino», sottolinea il ragazzo.

«Sul barcone eravamo tutti felici, pensavamo che ormai l’inferno era alle nostre spalle e l’Europa ci aspettava». Uno scenario che però cambia rapidamente. «Si è avvicinata una nave libica, gli uomini indossavano le divise – ricostruisce Hashem – intimando al capitano del nostro barcone, di origine tunisina, di tornare indietro». Lo scafista contatta i contrabbandieri che lo rassicurano sostenendo di aver preso accordi con la Guardia costiera libica. Ma la situazione peggiora. «Hanno cominciato a far alzare onde violente, facendoci balzare da un punto all’altro della barca; le donne erano terrorizzate e i bambini piangevano. Noi abbiamo intonato un canto Alza la testa, sei un libico!, perché ci aspettavamo solidarietà da parte di un popolo che è riuscito a conquistare la libertà dopo una rivoluzione sanguinosa, proprio come noi. Invece inspiegabilmente hanno iniziato a spararci addosso, prima sul capitano, poi nel mucchio, ferendo alcuni uomini. Uno di questi, Abduldaha Fahaz, poco dopo è morto annegato». Altri hanno una sorte migliore grazie alla presenza sul barcone di una trentina di medici che si impegnano a curare i feriti.

La nave libica si allontana. A mezzogiorno di venerdì 11 ottobre, lo scafista ferma il barcone e invita a chiamare la Croce rossa italiana perché la Sicilia è ormai vicina. Dall’Italia assicurano che i soccorsi arriveranno entro quaranta minuti. Ma il peschereccio imbarca acqua, i migranti disperati si concentrano tutti su un lato per controbilanciare il peso. Troppo tardi. «In un attimo mi sono ritrovato in mare e con me tutti gli altri, perché l’imbarcazione si è ribaltata e tanti sono rimasti sotto – ricorda Hashem – quasi nessuno sapeva nuotare e ci aggrappavamo l’uno sull’altro, io ho agganciato il barcone con le mani sanguinanti, mentre tre persone si tenevano a me. Pensavo che saremmo morti tutti, che sarei dovuto rimanere in Libia a lavorare, tutta la mia vita mi passava davanti come un film. Non avevo immaginato la possibilità di morire annegato in un mare sconosciuto».

Accanto ad Hashem c’è una donna con in braccio un bambino morto, dentro un salvagente. «Tuo figlio è morto, dai il salvagente a qualcun altro, salviamo uno di loro, urlavo alla donna, ma lei stringeva il bambino ancora più forte. Una scena terribile. Rimasi solo e per la disperazione cominciai a galleggiare come un morto, fino a quando una mano non mi ha tirato su». A salvarlo è una nave maltese su cui Hashem cerca subito i suoi parenti e gli amici. Trova solo Rateb e il cugino Hassan, gli altri sono morti. Anziché trasportarli a Lampedusa, come promesso, li trasferiscono a Malta dove al ragazzo vengono prese le impronte digitali. Una sosta lunga sette giorni durante i quali inizia uno sciopero della fame per protestare contro le autorità maltesi che non vogliono rivelare i nomi di tutti i sopravvissuti.

«Chiamai a casa, in sottofondo sentivo le donne che leggevano il Corano. Mia sorella urlò Sei vivo! Sei vivo! A casa mia erano raccolti in lutto, sicuri del fatto che non fossi sopravvissuto al naufragio», racconta. Quindi Hashem compra dei documenti falsi per raggiungere l’Italia. «165 euro per arrivare a Siracusa. Quindi ho proseguito per Catania, dove un mio amico mi aveva consigliato di andare a dormire in moschea e riprendere il viaggio verso la Svezia».

«Se potessi scegliere dove rinascere, che cittadinanza vorresti avere?». Fa un viaggio che dura un istante. «Giapponese! Vorrei essere giapponese», risponde. Se Hashem fosse a Duma adesso, se tornassimo indietro di due anni a prima della guerra, e fossero le otto e mezza di sera, si starebbe preparando per uscire con gli amici a ballare la break dance, sua mamma starebbe guardando il suo telefilm turco preferito a casa degli zii, suo padre sarebbe a casa del nonno e domani dormirebbe fino a tardi.

 

[Foto di Salvatore Mazza]

Sanaz Alishahi

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