«Io non appartengo a nessuno, né alla mafia né alla ‘ndrangheta. Io mi sono solo innamorata di mio marito». Quando lo sposa, quell’uomo che le ha rubato il cuore, non ha idea che lui conduca una doppia vita. Che sia un amorevole padre di famiglia e, allo stesso tempo, un uomo di Cosa nostra. Lei sa solo che lo ama e che non può tornare indietro. Quando confessa tutto, però, in lui c’è già una voglia forte, chiara di collaborare. Di dire tutto, come ha fatto con la sua famiglia. E lei gli resta accanto. «Avrei potuto dirgli di andare per la sua strada e io mi sarei fatta la mia. Ma noi siamo una famiglia e questa strada dovevamo intraprenderla insieme». Così lui parla, esce allo scoperto e trascina le persone più importanti che ha in quella che crede sarà una vita migliore, una vita sicura. «Non sono una testimone perché non ho nulla da raccontare, io non ho mai visto o assistito a niente e mio marito non mi ha mai raccontato nulla – spiega S. a MeridioNews -. Tantomeno sono una collaboratrice. Però sono comunque una testimone, in un certo senso, perché sono una cittadina che ha fatto il suo dovere, una cittadina che si è affidata allo Stato e che a questo stesso Stato ha affidato i suoi figli, sapendo che era la cosa giusta perché io sono cresciuta nella legalità, perché ero consapevole che questa fosse l’unica scelta possibile. Ma alla fine mi sono ritrovata annientata. Io oggi non ho più diritti».
Come quello al lavoro, ad esempio. «Sono fuori da quel mondo da anni, ormai, dal giorno della denuncia – racconta -. Eppure io ero un’imprenditrice: avevo un’attività che è stata distrutta. Ma non mi è stato mai riconosciuto niente. O meglio, la Dda ha confermato che ci fosse del dolo e che fosse dovuto alla nostra collaborazione, però nessuno mi ha dato mai un risarcimento, come in genere accade coi testimoni di giustizia. Come non sono mai stata reinserita nel mondo del lavoro, come invece accade, anche questo, con loro. Ero una cittadina che lavorava, adesso non faccio nulla da anni, non ho più un contributo pagato. Quando saranno scaduti i termini e sarò sbattuta fuori dal programma di protezione, cosa farò? Io ormai ho anche un’età, chi mi prenderà a lavorare?», si domanda. Ma a sparire, sotto protezione, è persino il diritto al voto, in un certo senso. «Possiamo votare nel luogo in cui abbiamo la residenza fittizia, a chilometri di distanza, un posto che dovrei raggiungere a spese mie e ovviamente senza alcun tipo di scorta o protezione – spiega -. Poniamo il caso che io viva in località protetta a Bari, ma la località fittizia è a Bolzano: io dovrei recarmi in quest’ultima a spese mie e senza tutela. È chiaro che, non sapendo nemmeno chi potrei ritrovarmi lì, non conviene. Anche perché se cerchi, quello che trovi è il mio indirizzo fittizio, cioè quello dove non vivo ma dove effettivamente dovrei recarmi da sola e a mie spese per votare».
«Questo è un metodo che annulla e annienta il tuo diritto di voto, quindi il tuo diritto di cittadino – prosegue S. -, tutto questo di fatto fa sparire una persona, non la rende più tale. Noi siamo senza volto, senza nome. Siamo annientati, i nostri diritti non esistono più, sono spariti insieme alle nostre vite». Sotto protezione ci finiscono anche i suoi genitori, gli stessi che di mafia non avevano mai sentito parlare prima. Ma decidono di rimanere nella loro terra d’origine. Dove negli anni hanno subito di tutto, dalle minacce alle lettere minatorie, dai proiettili recapitati agli assalti nei posti di lavoro. Sullo sfondo uno Stato che non sembra in grado di proteggerli. «Questo non è essere testimoni? Non hanno mai piegato la testa e non hanno rinnegato la scelta fatta da mio marito, anzi l’hanno sostenuta, questo non è essere testimoni? Ci siamo trovati dall’oggi al domani così. Lavoro, affetti…tutti abbiamo perso tutto. Mio padre, che oggi non c’è più, dopo anni di duro lavoro non è nemmeno riuscito a prendere la pensione: ci sono voluti tre anni di domande e insistenze, solo che nel frattempo, mentre aspettava, mio padre è morto per un cancro. E quella pensione non l’ha mai vista, non si è neanche goduto il frutto del suo duro lavoro».
Mentre la sua, di vita, scaraventata a forza in quel programma di protezione, di sicuro e tutelato sembrerebbe aver ben poco. «Le località protette non sono vere località protette, non abbiamo scorte o vigilanza. I miei figli e quelli di tanti altri vanno a scuola coi loro nomi e cognomi originari e quindi sono facili da rintracciare. Il medico curante lo abbiamo col nostro nome e cognome originario e quindi possiamo essere rintracciati. La località è “segreta” solo se noi non lo diciamo, ma non è segreta per niente. Le località sono spesso le stesse, così anche le abitazioni, le stesse da decenni – spiega -. Non siamo delle vite, siamo semplicemente dei numeri, delle pratiche. Arrivata la scadenza del contratto, via! L’ho già visto accadere ad altre persone, ad altre famiglie. Persino a donne in gravidanza, sbattute in strada e costrette a rivolgersi alle comunità». E poi c’è, forse, il capitolo più doloroso di tutti: i figli. «Alcuni di loro sono nati nel programma. Qualunque età abbiano, devi insegnare loro a mentire per salvargli la vita. Devi insegnargli che da oggi quel cognome non è più il loro, che devono fare attenzione a chi si avvicina, a come parla, a non dire mai da dove vengono. Persino iscriverli a scuola calcio non è semplice, perché la società ti chiede lo stato di famiglia e tu non lo puoi presentare». E poi la scuola, che spesso cambia ogni anno a causa degli spostamenti da una località all’altra, o l’iscrizione all’università, che implica un’ulteriore esposizione. «Come può un ragazzo costruirsi una vita? Come può costruirsi dei legami? Non abbiamo nessuna assistenza psicologica, dal primo all’ultimo giorno non c’è nessuno. Anche se sulla carta c’è tutto. Ma sulla carta, appunto. Lo Stato ha annullato le nostre vite».
Intanto, a sentire S., «sotto protezione ci sono più vittime innocenti, persone incensurate e oneste che collaboratori. Ma questo si dimentica, diventiamo tutti collaboratori, tutti ex mafiosi e come tali resteremo per sempre. Siamo tutti solo dei pezzi di merda, è questo quello che io mi sento dire da quella denuncia». Pezzi di merda pieni di privilegi e comfort, secondo la visione comune. «Quelli con più soldi, quelli con uno stipendio maggiore, quelli con una capitalizzazione più alta. Tutte cose non vere, però – spiega S. -. Non abbiamo né un reinserimento lavorativo né un vero nome di copertura. Io oggi non ho nulla, ho lasciato la mia terra, i miei affetti, il mio lavoro. Persino la mia auto, per la, quale nel caos di questa vita cambiata dall’oggi al domani, ho scordato di pagare il bollo: mi è arrivata la cartella di Equitalia con tutti gli anni arretrati da pagare». Perché in una vita come quella di S. a essere stravolta per sempre è innanzitutto la quotidianità. Quella che si mischia con la paura, che non se ne va mai. «”Oddio oggi qualcuno mi riconoscerà?”, “oddio questo potrebbe essere il mio ultimo giorno di vita?”, sono queste le cose che ti domandi. Quindi ti ritrovi lì a combattere con te stessa per cercare di essere forte, e devi anche insegnare ai tuoi figli a mentire, una cosa orrenda, perché si devono salvare la vita. Tutti questi disagi si potrebbero annullare con un semplice documento, e non con quello di copertura con cui non riesci neanche a intestarti una sim card visto che non solo di fatto è un documento falso, ma ti vietano anche di sottoscrivere contratti».
Il cambio di generalità effettivo potrebbe non solo permettere a S. e alla sua famiglia di ritrovare quella normalità perduta, ma diminuirebbe anche il rischio di essere riconosciuti. Cambio che, però, ad oggi non è ancora stato mai attuato. Una vita fuori dall’Italia, allora? Per molti è una bella tentazione, ma – anche volendo – come realizzarla? «Lo stiamo chiedendo da anni ma non ce lo permettono. Io non ho la possibilità economica di dire “cari signori vi ringrazio di tutto, arrivederci” e andarmene, io non ho un euro, come faccio? Dovrebbe essere lo Stato a darmi questa possibilità. Ma “non ci sono gli accordi bilaterali” oppure “non si può fare questa transizione di soldi dall’Italia all’estero”, questo ci dicono». Lo Stato, insomma, da un lato non sembra in grado di trovare loro un qualunque lavoro, dall’altro però non mette in condizione di aprire un’attività propria o di lasciare il Paese. «Ce ne sono tante di cose da raccontare. Eppure – conclude S. – tornando indietro io rifarei tutto quello che ho fatto. Perché è questa la cosa giusta. Malgrado tutto. Malgrado io non sia una vittima di mafia, ma una vittima di Stato. Quello che mi ha annullata, che mi uccide giorno dopo giorno. E io non sono la sola. Quello che vivo io lo vivono tutte le altre persone sotto programma. Al collaboratore le istituzioni rispondono che non può essere reinserito per motivi di sicurezza, e tutti gli altri? La moglie, i figli, i genitori, tutti gli altri? Sono anni che lo domando e che non ho risposta. Ma fin quando avrò fiato non smetterò mai di chiedere il perché di questo. Non smetterò mai di chiedere, alla fine dei giochi, chi sono i veri testimoni? E noi, soprattutto, che cosa siamo?».
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