«Io ex suora, ecco come sono riuscita a cambiare vita» Dall’anoressia ai figli, racconto di chi ha lasciato il velo

«Durante il periodo della formazione sono diventata anoressica. Sotto la tonaca nessuno si è reso conto che ero diventata uno scheletro e nessuno si è mai accorto che nascondevo il cibo nel cassetto del tavolo del refettorio o nelle tasche del grembiule che usavamo durante i pasti. Quando ho confidato alla mia formatrice che da diversi mesi non avevo più il ciclo, la prima domanda che mi ha fatto è se fossi incinta». Inizia così il racconto di Daniela, ex suora siciliana di 43 anni oggi insegnante di religione, sposata e madre di tre figli. «Lo sguardo delle formatrici sulle novizie è spesso giudicante. “Stiamo attente che non si avvicinino gli uomini“, tanto che a me – ricorda – rimproveravano di entrare in confidenza con le persone perché avrei potuto scatenare nel genere maschile aspettative che non avrei potuto assecondare». 

Negli ultimi giorni, da diversi giornali anche internazionali sono state diffuse informazioni in merito alle gravidanze di due suore in Sicilia. L’assessore regionale alla Salute Ruggero Razza ha disposto un’indagine nelle aziende sanitarie interessate per trovare i responsabili della fuga di notizie che MeridioNews ha scelto non trattare. Resta, però, un grande tema: quello di una consacrata che, per i più svariati motivi, decide di cambiare vita

Dall’esterno, la scelta della vita ecclesiastica per le donne sembra difficile anche per il ruolo che troppe volte finiscono per avere all’interno della Chiesa. «Io soffro – ha ammesso lo stesso papa Francesco nei primi anni del suo pontificato – quando vedo che il servizio della donna scivola verso un ruolo di servidumbre, (servitù, ndr)». Dall’interno si rivela non meno difficile anche la scelta opposta, quella di lasciare il convento dopo avere preso i voti. E di immaginare una vita senza una veste lunga fino ai piedi e un velo che copra la testa «e anche i capelli tagliati male». 

Entrata in convento a 17 anni, Daniela esce che ne ha 28. È il marzo del 2005. «Con me avevo pochi effetti personali che stavano dentro una scatola e una busta con mille euro – ricorda – Una cifra che avevo ottenuto dal convento dopo avere ricordato, in quella che nel mondo del lavoro sarebbe una lettera di dimissioni, che è previsto un contributo di carità nei confronti delle persone che hanno prestato servizio all’interno dei conventi». Nel percorso a ritroso per ricostruire la sua storia, Daniela torna alla domanda che ha cambiato il corso della sua vita. «Nel periodo in cui stavo male ho fatto una visita, durante il colloquio il medico mi ha chiesto: “Sei felice?“. Questo interrogativo ha toccato un tasto dolente ma, per un po’, ho provato a risollevarmi e sono andata avanti». 

Dopo alcune missioni in Polonia e in Romania, Daniela comincia a insegnare in una scuola elementare del nord Italia. «L’incontro con una bambina che era stata vittima di abusi e l’impossibilità di intervenire praticamente nonostante la mia denuncia, è stato il momento in cui ho capito che tra il dire e il fare della comunità religiosa c’è un mare. La mia vocazione era quella di aiutare le persone che avevano bisogno – continua – ma, in pratica, mi veniva impedito dalla gerarchia: le mie volontà si scontravano sempre con le regole molto rigide della comunità religiosa». 

Dopo questo episodio, la ragazza viene trasferita a Roma, «praticamente in esilio per vivere un’esperienza di solitudine. Per calmare quello che loro chiamavano un “esaurimento nervoso” mi facevano prendere delle gocce». A quel punto, grazie anche al sostegno del fratello – che è un sacerdote – la suora decide di andare via. Di lì a poco formalizza la sua scelta con una lettera alla madre generale del convento. «In modo freddo e tagliente, con toni poco materni, mi ha detto che accettava la mia decisione perché non mi ero mai adeguata alla vita della comunità». Così, lascia l’abito sul letto e si chiude alle spalle il portone. «Mi sono resa conto – dice – che non ero più coperta, che avevo i capelli tagliati malissimo, mi sentivo addosso lo sguardo pesante delle persone come se tutti sapessero che ero una suora appena uscita da un convento». 

«I primi vestiti da non-suora me li ha comprati mio fratello – racconta – Sentivo che avevo bisogno di costruirmi come persona ma non avevo prospettive, non sapevo dove andare e la prima notte ho dormito a casa di un idraulico che, qualche tempo prima, mi aveva lasciato il suo bigliettino da visita e mi aveva detto “per qualunque cosa, mi chiami”». Dopo una settimana dal padre «di silenzio totale sul presente e sul futuro, sono tornata in Sicilia ma non ero abituata a dovere fare i conti con il mondo. Ho cercato sul giornale delle offerte di lavoro, prima sono stata impiegata in un call center e poi ho fatto la bar lady». Con la laurea in Teologia in tasca, qualche tempo dopo, arriva la nomina per lavorare in una scuola come insegnante di religione

«La mia vita, adesso, è totalmente cambiata: ho un marito, tre figli e un cane e sono felice anche di tutto il dolore che ho vissuto perché pure rimettersi in piedi dal punto di vista emotivo non è stato semplice». In questo, da terapia ha fatto l’arte. «L’ho incontrata attraverso mio marito e ho iniziato a dipingere dopo la prima gravidanza. Da qualche anno è maturata anche la passione per la fotografia: faccio soprattutto ritratti concettuali che racchiudono anche il particolare percorso della mia vita». 

Marta Silvestre

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