Ha subito pesanti pressioni per sottostare al pagamento del pizzo. Una condizione alla quale si è ribellato, scatenando la ritorsione di Cosa nostra che gli ha incendiato un mezzo funzionale all’attività commerciale. Ma nonostante le intimidazioni, un imprenditore di Paternò, nel Catanese, ha deciso di rivolgersi ai carabinieri e di denunciare gli estorsori. I militari del comando provinciale etneo hanno così arrestato quattro persone, legati ai clan mafiosi Mazzei e Assinnata. Si tratta di Luigi Ciccia, Salvatore Crisafulli, Giuseppe Fioretto e Domenico Miano. Le accuse per loro sono di associazione per delinquere, estorsione, usura, spaccio e rapina. Per tutti è scattato l’aggravante mafioso.
Grazie alla collaborazione dell’imprenditore, le forze dell’ordine coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia hanno potuto documentare alcuni dei reati, commessi – sottolineano gli investigatori – con «modalità spietate». Nel territorio paternese, rimasto sguarnito dei vertici del clan Assinnata perché detenuti, tutti i proventi delle estorsioni a negozi e imprese edili sarebbero stati gestiti dai due esponenti del clan, Fioretto e Ciccia. Le attività di Miano e Crisafulli, afferenti alla famiglia Mazzei, si concentravano invece sullo spaccio di sostanze stupefacenti e sull’usura (da un prestito di 10mila euro da restituire in due mesi, avrebbero preteso interessi del 15 per cento al mese). I proventi sarebbero stati reinvestiti nell’acquisto di altra droga o in nuovi giri di usura. «In caso di mancati o ritardati pagamenti – spiegano i carabinieri – alle minacce seguivano ben presto i fatti: le estorsioni, come il sequestro dei veicoli di proprietà delle vittime, le quali, per riavere indietro il mezzo erano costrette a pagare lintero debito, subito e in unica soluzione, per non vedersi alienare il bene, anche sotto forma di semplice metallo». Una condizione di controllo del territorio molto radicata. «Lassoggettamento delle vittime era tale che le stesse, spinte a entrare nella morsa degli strozzini per difficoltà economiche delle attività che gestiscono o per bisogni personali della famiglia, non denunciavano per paura di ritorsioni, preferendo diventare reticenti». Una condizione che non ha scoraggiato l’imprenditore la cui identità, come d’obbligo in casi del genere, non è stata rivelata.
Quest’ultimo caso per molti versi somiglia ad un’altra storia di ribellione al racket, quella di Emanuele Feltri e della sua azienda agricola nelle campagne di Paternò. «Speriamo di andare avanti», sospira l’imprenditore, vittima di svariate intimidazioni mafiose, dall’uccisione di alcune pecore agli sversamenti di scarichi fognari nelle sue terre. Ma il giovane mette in guardia rispetto ai facili ottimismi: «L’aria che si respira è pesante; c’è ancora molto lavoro da fare, non ci si può fermare». Una linea comune a quella espressa dall’associazione Addiopizzo: «Non è più di coraggio che si deve parlare – scrivono in comunicato – ma di senso di responsabilità e scelte quotidiane che oggi chiunque può compiere affidandosi alla competenza delle istituzioni e, qualora ne avesse bisogno, anche al sostegno delle associazioni operative sul territorio». La chiave per ottenere un cambiamento, secondo Feltri, sta in due percorsi paralleli: «Serve una continua sensibilizzazione e una presenza costante delle istituzioni», come ha continuato a invocare nei mesi successivi alla sua denuncia. «C’è sfiducia, ma se le istituzioni non ci lasciano soli, se camminano con noi, si può creare qualcosa».
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