Il ruolo dei liberali alle prossime elezioni europee: l’ipotesi Verhofstadt

QUESTA GRANDE TRADIZIONE POLITICA NON PUO’ IGNORARE GLI ERRORI DI POLITICA ECONOMICA CHE SI STANNO COMMETTENDO IN QUESTI ANNI NELLA GESTIONE DELL’UNIONE EUROPEA

Ciascuno ha le proprie contraddizioni, prima nel difficile sforzo di fare chiarezza nelle proprie idee, poi nell’altrettanto difficile esercizio di rendere coerenti i propri comportamenti con le convinzioni ideali che si dichiara di avere. Per dei liberali italiani autenticamente indipendenti e capaci di un anticonformismo non esibito per vezzo, ma quotidianamente praticato, quali ad esempio sono gli amici di “Critica liberale”, si pone, tra l’altro, il problema dell’orientamento da assumere nelle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo.

Un uomo politico belga, personalmente simpatico e capace di esprimersi anche in un decente italiano, Guy Verhofstadt, sembra sia riuscito a ricondurre tutte le sensibilità genericamente liberali del nostro Paese a riconoscersi in una comune lista elettorale. Impresa straordinaria, come può comprendere chi abbia una sia pure approssimativa conoscenza di quanto sia variegato e politicamente eterogeneo il campo di coloro che in Italia definiscono sé stessi liberal-democratici.

La lista si chiamerà “Scelta europea”; denominazione che richiama immediatamente l’esperienza di “Scelta civica”. Perché, appunto, questa formazione politica italiana sarà la componente più strutturata dell’alleanza elettorale che vuole supportare la politica europea dell’ALDE (“Alliance of Liberals and Democrats for Europe”). Per quanto riguarda tutte le altre sigle e siglette, in questa sede se ne risparmia l’elenco, anche se spiace non ritrovarvi quella del Partito Repubblicano italiano, che, almeno in termini di riconoscimento di una tradizione politica, avrebbe avuto molto più senso di tante altre.

Nelle elezioni europee gli elettori hanno la possibilità di esprimere preferenze per i candidati. Tale circostanza renderebbe possibile, in teoria, presentare liste forti e competitive in tutte e cinque le circoscrizioni italiane. I primi posti delle liste potrebbero tranquillamente essere lasciati a coloro che hanno bisogno di pennacchi, fermo restando però che in una competizione con le preferenze l’ultimo candidato di una lista vale quanto il primo. Un’intelligente gestione delle liste (qui Verhofstadt dovrebbe fare un secondo miracolo) consentirebbe a tutte le formazioni aderenti al cartello elettorale di esprimere almeno due o tre candidature, coinvolgendo le proprie personalità più rappresentative laddove si presume possano raccogliere più consenso. Il risultato finale sarebbe così rimesso al libero voto espresso dagli elettori.

Obiettivo certamente non facile: andrebbe ribaltato un antico malcostume politico, da cui nessun partito italiano è immune: quello secondo cui è meglio ottenere meno voti, ma sforzandosi di garantire l’elezione proprio di quei determinati candidati su cui si punta, piuttosto che ottenere magari una copiosa messe di voti, ma consentendo che risultino eletti candidati che non si controllano.

Qualora, invece, dovesse prevalere la consueta, meschina, logica di precostituire l’elezione di qualcuno, presentando liste in cui tutti gli altri candidati sono selezionati con il criterio che non devono fare ombra a quel qualcuno, il risultato elettorale sarebbe anch’esso stentato e meschino. La libera concorrenza non è una regola fondamentale per la mentalità liberale? Allora si faccia in modo che proprio i liberali comincino a praticarla, già nella composizione delle liste elettorali.

Tutto ciò premesso, penso sia positivo questo tentativo di riorganizzazione di un’area politica che in Italia è giunta alla assoluta irrilevanza. Resta però il problema iniziale. Una persona che oggi, nel ventunesimo secolo, ami definire sé stessa liberaldemocratica in politica, come deve rapportarsi ad una lista elettorale dichiaratamente collegata alla famiglia dei liberali europei?

La risposta di chi scrive è che non c’è alcun obbligo, logico, di coerenza politica, di affinità culturale, che imponga di votare per la lista “Scelta europea”. Il fatto che non ci sia un voto obbligato, riconduce questa ad una fra le opzioni possibili. Spetterà all’elettore fare la fatica di scegliere, valutate le caratteristiche delle liste.

Dichiararsi liberali non significa che tutti gli Autori che storicamente si iscrivono nella tradizione culturale liberale piacciano allo stesso modo. Un liberista economico ed un liberale politico possono arrivare a conclusioni diametralmente diverse, anzi opposte.

L’Italia ci è cara, così come ci è cara l’Europa, di cui ci sentiamo e siamo figli. Ma l’Unione Europea, nella sua concreta esperienza storica, è certamente è molto meno dell’Europa che amiamo, amiamo proprio per la sua ricca complessità.

L’ALDE sta alla crisi del liberalismo, come il Partito socialista europeo sta alla crisi del socialismo. Le antiche etichette non riescono più a definire realtà che si sono tropo diversificate in secoli di storia.

I liberali europei non sono troppo diversi dai popolari europei e dai socialisti europei, quanto a responsabilità nella conduzione delle Istituzioni dell’Unione. Il volto arcigno del finlandese Olli Rehn, membro della Commissione, non diventa più simpatico per l’appartenenza all’ALDE. In discussione non è la simpatia individuale, ma una politica economica che dà importanza primaria all’equilibrio dei conti pubblici, al contenimento del disavanzo, al rientro forzoso dal debito pubblico. Una politica economica che fa male all’economia, perché se il Prodotto interno lordo (Pil) decresce, l’incidenza del debito pubblico sarà sempre maggiore, a dispetto di qualsiasi, anche durissima, politica di ripiano del debito medesimo. Una politica economica che non è a misura d’uomo. Ed i liberi liberali almeno un orientamento dovrebbero averlo: quello di essere dalla parte di ciò che serve a migliorare la condizione e la dignità degli esseri umani.

 

Livio Ghersi

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