Il referente di Matteo Messina Denaro a Caltagirone «Alto livello culturale, vestito bene e sapeva parlare»

Una start-up. La creazione di una filiale del clan Laudani in un luogo in cui non c’era prevedeva, secondo le dichiarazioni di chi l’aveva promossa, tutto quello che accade con le giovani aziende: un periodo iniziale di conoscenza del mondo degli affari, lo studio del mercato di riferimento, la formazione della società e poi i primi, timidi passi di impresa. E se l’impresa è l’apertura a Caltagirone di una cellula della cosca catanese più sanguinosa, l’avvio delle attività coincide con vetrine di negozi crivellate di proiettili, mezzi da lavoro incendiati e riunioni con gli altri referenti locali. È in questa occasione che viene tracciato il profilo del contatto calatino di Matteo Messina Denaro, il superlatitante di Castelvetrano, capo di Cosa nostra in Sicilia. Sarebbe direttamente con lui che un insospettabile gestiva i contatti, almeno tra il 2005 e il 2006, negli anni in cui l’oggi pentito Giuseppe Laudani e i suoi volevano interrompere il monopolio della famiglia Santapaola nel Calatino.

Secondo le rivelazioni del collaboratore di giustizia, parte tutto dall’insoddisfazione di Marco Grimaldi, ex componente della famiglia La Rocca di Cosa nostra, storicamente vicina proprio ai Santapaola. Grimaldi «non riteneva di essere tenuto nella giusta considerazione». La sua esperienza non sarebbe stata messa a frutto nel modo giusto, tanto da spingerlo a uscire dalla cosca guidata, secondo le dichiarazioni del collaborante, da Gianfranco La Rocca, figlio del capomafia Ciccio. È in questo contesto di desiderio di rivalsa che arriverebbero i contatti con il clan Laudani. Per stringere l’accordo Marco e Giuseppe ci mettono poco. Una stretta di mano in un’abitazione di Giardini Naxos e il patto: una volta aperta la cellula, Grimaldi ne sarebbe diventato il referente. Tra il 2005 e il 2006 Laudani manda a Caltagirone sei uomini, affiliati, armati. Mette sul piatto una pistola calibro 38, tre o quattro pistole automatiche, due o tre fucili calibro 12

L’obiettivo è far sapere ai La Rocca che i Laudani sono entrati nel loro territorio e non hanno paura. «Non partiamo col piede a tremila – dice Giuseppe Laudani a Marco Grimaldi – Intanto entriamo, poi si possono fare tutte cose». Ed è nella fase di ingresso, dopo l’incendio di alcuni compattatori della nettezza urbana, che alla porta di Grimaldi bussa un uomo. Il referente di Matteo Messina Denaro per Caltagirone. «I ragazzi bruciano questo camion, naturalmente ci sono delle persone interessate su questa ditta – spiega il pentito Laudani – Non si sa chi è l’interessato, noi pensavamo che erano i La Rocca, esce fuori che gli interessi non sono di La Rocca, ma sono di Matteo Messina Denaro. Esce fuori la figura di un rappresentante di Matteo Messina Denaro a Caltagirone, di Caltagirone».

«Una persona di alto livello culturale, vestita bene, che sapeva parlare e tutto il resto», la descrive Giuseppe Laudani. «Non era un pecoraio», aggiunge. Nomi non ne fa, dice di non conoscerne, ma sull’età qualcosa ricorda: una cinquantina d’anni. «Ma che interesse c’è a Caltagirone? Che gliene importa a Matteo Messina Denaro?», domandano i magistrati. La risposta è vaga e fa riferimento a generici rapporti di Ciccio La Rocca con Cosa nostra di Palermo. Sembra che il superboss possa vantare un contatto diretto con il Calatino. «Facci sapere a questa persona, tornaci a parlare, digli che problemi non ce n’è per questa ditta – racconta di aver detto Laudani a Grimaldi – È di Messina Denaro? Sono cose loro, a me non mi interessa completamente. A me interessa Caltagirone e tutto il resto. Andiamo avanti». «Non è questione di scappare – precisa il pentito – Non è perché ci ha fatto il nome e ce ne siamo scappati».

E il discorso, in effetti, va avanti. Dopo una serie di minacce e altrettante intermediazioni, Gianfranco La Rocca viene ricevuto da Giuseppe Laudani mentre era agli arresti domiciliari a San Giovanni La Punta. Un pranzo in grande, «tipo stile anni Ottanta. C’erano tutti gli altri ragazzi che dall’altro lato cucinavano e mangiavano, abbiamo fatto una mangiata», spiega il collaboratore di giustizia. E sebbene «a me le mangiate non mi sono mai piaciute, l’ho dovuta fare», tra la carne e lo champagne l’accordo tra La Rocca e Laudani viene stretto. Con qualche perplessità. «Noi siamo persone all’antica siccome noi abbiamo dato la parola a Benedetto Santapaola…», dice Alfredo Panio, dei La Rocca. «Facciamo un’ipotesi – replica il nipote di Sebastiano Laudani – Noi si va a Caltagirone con un progetto di qua a sei mesi, otto mesi, un anno, quel che sia […] Dopo si prende un regalo e si ci fa avere direttamente a Benedetto Santapaola». Il regalo, però, non arriva mai. Perché con l’arresto di Marco Grimaldi – sostengono i Laudani per colpa proprio di Alfredo Panio, mai convinto di tradire i Santapaola – la start-up di Caltagirone naufraga. E con lei le mire espansionistiche su un territorio su cui pesa l’ombra degli interessi del capo assoluto di Cosa nostra.

Luisa Santangelo

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