L’8 ottobre il sito dell’azienda sanitaria provinciale palermitana dà notizia della messa in funzione, in via sperimentale, di un domicilio protetto a Castelbuono con 40 posti letto. «La struttura – spiega la direttrice generale dell’Asp, Daniela Faraoni – è destinata a pazienti Covid positivi non autosufficienti che non necessitano di ricovero ospedaliero, ma di un’assistenza impossibile da garantire all’interno di un nucleo familiare o al Covid Hotel». Il protagonista di questa storia in questa struttura c’è stato e preferisce rimanere anonimo, per raccontarla useremo quindi un nome di fantasia.
Per chi, come Giuseppe, ritrova un familiare anziano positivo che necessita di un’assistenza domiciliare, affidarsi ad una residenza sanitaria assistita è l’unica soluzione. «Ho richiesto assistenza domiciliare – spiega – ma nessuno poteva venire. A Palermo non c’erano posti e l’asp ci ha consigliato di andare in questa residenza assistita a Castelbuono». Il primo piano della struttura, destinato ai pazienti, li vede suddivisi in stanze in base alla gravità dei casi. «In un’ala dell’edificio – racconta Giuseppe – ci sono quelli meno contagiosi, già in via di guarigione, mentre nell’altra ala, sempre però dello stesso piano, quelli più gravi».
Il piano terra invece ospita il personale sanitario. «Pochi – denuncia Giuseppe – per venticinque persone non autosufficienti c’erano due Oss, certe volte ne veniva solo uno, poi un infermiere e due medici. Stavano al piano di sotto e salivano due, tre volte al giorno. Venivano a portare pranzo, cena, le medicine. Qualcuno – del personale sanitario ndr – ogni tanto saliva di pomeriggio perché c’era qualche persona che peggiorava e venivano a mettere di corsa l’ossigeno, i dottori erano molto preparati ma comunicare era difficile».
Della sua permanenza nella struttura Giuseppe ricorda le urla degli anziani, che dalle stanze chiuse chiedevano aiuto. «Facevano come i pazzi – racconta – “aiuto, infermiere!” urlavano “ho fame”, “voglio morire”» ma spesso a rispondere non c’era nessuno. Nelle stanze nessun citofono, né campanello, l’unico mezzo per rintracciare i dottori al piano di sotto rimaneva il cellulare. Ma molti anziani, non avendo dimestichezza con le tecnologie, continuavano a gridare. «Alcuni pazienti avevano il numero e riuscivano a contattarli se avevano delle necessità, quelli magari più svegli, altri no. Alcuni cellulari nemmeno prendevano, se ne sono accorti persino i dottori, quando un giorno, saliti sopra, non riuscivano a contattare i colleghi “Non ci sentono, qua ci vorrebbe un campanello” hanno detto in quell’occasione».
Ad amplificare la distanza e la sensazione di abbandono, oltre alla linea telefonica, la procedura di vestizione e svestizione che inevitabilmente vedeva tardare i dottori anche nelle situazioni più urgenti «Salivano tutti bardati dalla testa ai piedi, quindi ogni volta che li chiamavamo dovevamo anche considerare il tempo di vestirsi, questi dieci minuti, un quarto d’ora per sanificare, vestirsi e salire». Nella struttura, la maggior parte dei pazienti oltre a risultare positivo al Covid presenta anche altre patologie «Le cose quindi si aggravavano – spiega Giuseppe – chi aveva il diabete, chi aveva il catetere, molti avevano altre patologie e le cose andavano precipitando». Nel corso della sua permanenza nella struttura assistenziale, Giuseppe ha assistito a ben 15 decessi.
Ma quello che più lo ha lasciato sbigottito è stata la superficialità con cui venivano trattati alcuni ospiti. «Qualcuno non ci stava bene con la testa, chiamava spesso e veniva lasciato sbattere. “Zitto sennò ti rumpu ‘i jammi” rispondevano male, – continua – sgarbatamente, perché magari li chiamavano ogni minuto, quelli però per chiamare avevano delle necessità». «Queste persone sono molto delicate, non sono autonome – conclude Giuseppe – le devi aiutare. Giovani o anziane, non sono auto-sufficienti, possono avere pure cent’anni, finché c’è vita c’è speranza e finché c’è vita se chiedono aiuto le devi aiutare»
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