Storie di torture fisiche e psicologiche per certi aspetti simili, ma ognuna diversa dall’altra. A raccontarle sono i medici di Medu, l’organizzazione umanitaria che si prende cura della salute dei migranti che partono dalla Libia e che arrivano in Sicilia. Una relazione sulle condizioni di salute e anche la denuncia sulle nuove politiche di governo e sul cambio di rotta delle istituzioni locali per il riconoscimento della protezione internazionale. «Questo non è un rapporto», dice il coordinatore di Medu Alberto Barbieri, per introdurre il racconto del lavoro svolto negli ultimi quattro anni a sostegno dei migranti vittime di violenza nel centro polifunzionale di Ragusa, nell’hotspot di Pozzallo e nel Cara di Mineo, nell’ambito del progetto medico On.To (Stop alla tortura dei rifugiati lungo le rotte migratorie dei paesi Sub-Sahariani al Nord Africa).
Oltre 450 le persone visitate e ascoltate grazie ai mediatori. Di queste l’85 per cento sono uomini provenienti dall’Africa occidentale partiti dalla Libia, con
un’età media di 25 anni e un passato di anni di violenze. «Sentiamo racconti simili a quelli dei lager nazisti – spiega la psicologa Anna Dessì durante la conferenza – con la differenza che per quanto accade in Libia non ci
scandalizziamo. Non possiamo rimandarli indietro – continua – perché quello non è un porto
sicuro». La psicologa di narrazioni in prima persona ne ha ascoltate tante, in particolare di donne vittime di tratta che le hanno riferito di essere state picchiate o utilizzate persino come pedaggio in Niger. «La violenza sessuale è il pagamento del check in per farle passare».
Per raggiungere la consapevolezza di essere state delle vittime di abuso occorre un lavoro complesso. «Prima di partire sono state sottoposte al jujù, un rito tribale – spiega Dessì – con cui vengono convinte che la loro famiglia starà molto male se non finiranno di pagare il debito per il biglietto. Una credenza popolare che impone loro il silenzio, perché si sentono ancora debitrici». Il diritto alla salute è l’obiettivo principale del team di Medu a partire da «interventi rapidi per il recupero dai traumi subiti e acuiti dallo stress
successivo all’approdo che può portare a depressione, disturbi d’ansia, o anche a patologie più latenti che emergono gradualmente». L’urgenza delle cure, però, spesso si scontra con la lentezza della burocrazia e delle istituzioni. «Dopo viaggi che, spesso, durano anche per anni. Come il caso di un ragazzo eritreo – ricordano – partito a 13 anni e arrivato dopo averne compiuti 18 e aver subìto (e assistito) ogni tipo di sopruso: scosse elettriche, violenze sessuali, percosse ai
piedi e ai legamenti».
Violenze patite anche da quelli che vengono definiti scafisti
per necessità, cioè coloro per i quali trasportare illecitamente i migranti sulle
imbarcazioni sarebbe l’unico modo per sottrarsi a reiterate violenze fisiche. Una persona disponibile a guidare l’imbarcazione dalla Libia,
anche se non ha mai visto il mare. «In questo momento – denuncia la psicologa Valentina Gulino – all’hotspot di Pozzallo ci sono 73 migranti bloccati da due
mesi e mezzo. Tra loro anche dei bambini piccoli, alcuni nati nelle prigioni libiche e rimasti in attesa degli accordi tra gli stati
dell’Ue».
Gli hotspot sono luoghi sicuri in cui i
migranti vengono identificati e curati ma la loro
permanenza dovrebbe durare non più di 72 ore. «Perché sono posti in cui rivivono troppe assonanze con l’ambiente di prigionia: l’ambiente
unico, la presenza delle forze militari, le porte chiuse durante la notte. Questo altro non fa che prolungare i loro traumi». È Samuele Cavallone, coordinatore di Medu Sicilia a raccontare che «al Cara di Mineo, per esempio, c’erano migranti che non
volevano avvicinarsi a noi per i colloqui clinici se notavano la presenza di una
persona in divisa perché avevano paura».
Emerge durante l’incontro anche la preoccupazione per una maggiore diffidenza manifestata negli ultimi mesi dalle Commissioni territoriali in merito alle richieste di protezione internazionale. «Prima anche otto persone su dieci riuscivano a ottenerla – afferma lo psichiatra Peppe Cannella – Da alcuni mesi, in particolare dopo il blocco della nave Diciotti, molte richieste si sono concluse con un provvedimento di diniego o
sono state sospese con la richiesta di integrare la documentazione redatta
dai medici che seguono i migranti con quella di strutture sanitarie pubbliche».
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