Il pescatore di Pantelleria a rischio estinzione «Le regole vengono da troppo lontano»

Dire mare è dire troppo, forse tutto, e a pensarci di continuo si rischia di essere romantici. Un’isola minore è come un satellite che ruota attorno a ciò che non è fermo: instabilità genetica, morfologia da isolamento; in una parola, Pantelleria. Il pescatore vive in una condizione unica: patriota di una terra chiamata mare, avanguardista della perturbazione, con un nome, in questo caso: Battista Mannone. Il mare, l’isola, la pesca: tre elementi che già singolarmente sfuggono alla definizione, e che se poi si combinano dentro e intorno alla stessa persona centrifugano natura e umanità in una tela dalle pennellate bibliche

Tuttavia nel romanzo quotidiano, oltre agli ingredienti esistenziali, c’è la lista della spesa: lo sanno bene i panteschi, un po’ pescatori e un po’ agricoltori, che in quel lembo di 87 chilometri quadrati a 80 miglia dalla Sicilia e 40 dalla Tunisia, hanno imparato a sfuggire al canto delle sirene e a essere concreti. Sussistenza e autogestione sono i principi cardine della vita sull’isola: settemila anime che fanno di necessità virtù per sconfiggere la lontananza dal continente. «Un traghetto ogni tanto e 14 barche», Battista, la sua isola, la racconta così. A 14 anni getta le prime reti, precisamente le palamitare, diverse dalle derivanti oggi osteggiate dalla Comunità europea; per vent’anni fa il sommozzatore in giro per l’Italia fino al suo ritorno a Pantelleria, dove ricomincia come capitano delle barche altrui; adesso, a 51 anni, ha la propria imbarcazione e una compagna di Imola, Rossella, con la quale lotta per non fare scomparire la pesca artigianale

«La condizione di Pantelleria è quella di un’isola dove non si può vivere di sola pesca, sia perché lo specchio d’acqua è ristretto, sia perché la flotta, negli anni, si è ridotta: noi peschiamo il 10 per cento di ciò che viene immesso sul mercato ittico, l’altro 90 per cento arriva dalla Sicilia o è congelato». Proprio così: qui si parla della Sicilia come di qualcosa di distante e diverso. Lo dimostrano anche i canoni dell’economia isolana, dove la voce agricoltura si fonde con quella relativa alla pesca: «Il pantesco vive di trasformismo, si immedesima in qualsiasi situazione per bisogno: si va a ricciole, ma anche a capperi. Funziona così, qui: tutti possiedono una terra e una barca, che possono diventare aziende familiari o servire solo alla sussistenza».

Ecco perché, a volte, le politiche nazionali o comunitarie, che si rivolgono a un insieme onnicomprensivo di territori, risultano inadeguate. «Le regole – continua Mannone – vengono da troppo lontano e non tengono conto delle nostre peculiarità e priorità: se una cosa va bene per la Spagna, non è detto che vada bene per noi». Tra comportamenti intrusivi e pesca invasiva, le insidie sono tante e i pescatori di Pantelleria hanno imbastito una difesa fai da te. «Con la nostra associazione ci muoviamo ormai da tre anni. Usciamo da un piano di gestione intrapreso con qualche diffidenza nel 2012, ma che poi si è rivelato strumento indispensabile per attivare i bandi regionali sui fondi europei». 

Adesso, però, i finanziamenti sono finiti e ci si deve inventare qualcosa per incrementare la pesca stagionale e artigianale, partendo dai punti di forza: la rete a tremaglio e il pesce povero (cioè quello azzurro). «Il progetto lo stiamo costruendo noi nel solco delle regole tracciate dal piano di gestione, ma abbiamo bisogno delle istituzioni». Se fosse l’assessore alla pesca, cosa farebbe? «Innanzitutto cercherei di capire cosa succede nel Mediterraneo tra cambiamenti climatici e pesca intensiva: serve l’apporto della ricerca e di biologi che ci dicano come regolarci». Un’altra idea, infine, arriva da Rossella: «Occorre diversificare le attività, dalla pesca al turismo, e creare un ente che promuova la distribuzione e la conservazione del pesce locale; il connubio tra agricoltura e pesca, poi, da ripiego si può trasformare in punto di forza». Il futuro è sempre più prodotti autoctoni, artigianato e dimensione locale, ma l’Europa saprebbe indicare Pantelleria sulla cartina?

Gino Pira

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