«Ho perso la cosa più cara che avevo per fare arrestare i miei complici che erano gli assassini del giudice Falcone. Ho perso mio figlio. E lo Stato che fa? Si dimentica di me, non mi protegge più». Sono anni, ormai, che il pentito Santino Di Matteo non fa più parte del programma testimoni, da quando è stato condannato per detenzione di armi. In passato, dopo un parere favorevole della Dia di Palermo ma il diniego da parte della Commissione centrale, aveva presentato un primo ricorso al Tar contro l’esclusione dal programma, vincendo. Ma l’Avvocatura dello Stato ha impugnato il provvedimento. E, questa volta, il Consiglio di Stato ha dato ragione al ministero dell’Interno. «Andrò fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo per avere ciò che mi spetta», dice.
Proprio oggi sono 22 anni che il figlio dell’ex mafioso non c’è più, sparito, dissolto per sempre nel fondo di un barile pieno d’acido. A ucciderlo nel 1996, dopo 779 giorni di prigionia, sono i mafiosi Vincenzo Chiodo, Giuseppe Monticciolo ed Enzo Salvatore Brusca, condannati all’ergastolo per essere stati gli esecutori materiali del delitto, commissionato invece da Giovanni Brusca. Una vendetta atroce per convincere il padre del bambino, divenuto un collaboratore di giustizia, a non continuare a rivelare i dettagli della strage di Capaci e dell’omicidio dell’imprenditore Ignazio Salvo, legato a Cosa nostra.
«Mi accusano di essere tornato a delinquere. Sì, è vero – dice Di Matteo – nel 1996 sono tornato in Sicilia per cercare mio figlio. Io vorrei vedere chi sarebbe rimasto a casa ad aspettare. Lo Stato lo cercava, per carità il dottor Lo Voi ha fatto tantissimo, è una persona seria, veramente seria. Anche il dottor Pignatone si impegnò tanto. Ma, purtroppo, sono arrivati in ritardo. Io, invece, ero arrivato prima, ma abbiamo sbagliato casa…». Giorni di ricerche estreme insieme a una banda capeggiata da un altro pentito, Balduccio Di Maggio, ex fedelissimo di Riina. Intanto, gli stessi giudici hanno ribadito che D Matteo va protetto, perché continua a essere a rischio a causa delle sue rivelazioni e degli arresti che ne sono scaturiti. «Io ho sbagliato, lo so – insiste lui – ma quante vite ho salvato con le mie dichiarazioni».
Oggi, Santino Di Matteo vive lontano dalla Sicilia e lavora nella comunità di accoglienza gestita da un giovane sacerdote. «Mi interessa solo vivere tranquillo.- afferma – Ma il ricordo di mio figlio Giuseppe è sempre presente. Nell’ultima telefonata, qualche tempo prima del rapimento, mi diceva “papà, come stai? Papà, non ti preoccupare”. Era lui che faceva coraggio a me. Aveva il dono del sorriso. E me l’ hanno ammazzato».
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