Sei persone sono finite in manette dopo l’ennesima operazione dei carabinieri a Monreale. Punita ancora una volta la famiglia mafiosa del Comune normanno che, tuttavia, ha dimostrato di avere una capacità di rigenerarsi davvero fuori dal comune. L’operazione è la naturale prosecuzione delle precedenti indagini denominate Quattropuntozero e Montereale, entrambe relative al mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, di cui fa parte la famiglia mafiosa di Monreale tra marzo e ottobre 2016. Le accuse sono di associazione di tipo mafioso e di tentata estorsione aggravata.
E alla guida della famiglia ci sarebbe stato Sergio Damiani, 38enne figlio del boss Salvatore Damiani, che si era alternato insieme al fratello, Settimo, al vertice del clan prima che questo finisse nelle mani del boss Giuseppe Balsano. Il pontificato di Sergio Damiani, però, sarebbe durato lo spazio di un paio d’anni: tra il 2015 e il 2016, periodo in cui il panettiere finito in carcere nell’operazione Nuovo mandamento, era stato liberato a seguito della sentenza di primo grado, ribaltata appunto due anni dopo. Ma appena uscito di galera il rampollo dei Damiani sembrava non volerne sapere niente di mafia e, come raccontato dagli inquirenti, tendeva a tenersi alla larga dalle relazioni pericolose. Uno sforzo inutile: sarebbe stato lui infatti il prescelto per ricoprire il ruolo di nuovo Papa, un appellativo nato direttamente nell’ambiente della mala monrealese. «Non hanno nessuno, forse non lo hai capito. L’unico Papa che poteva essere con loro sai chi era? Sergio!» si legge in una delle numerose intercettazioni.
L’opera di convincimento è partita dall’alto del mandamento, da quell’Ignazio Bruno che pare gestisse le sorti di San Giuseppe Jato e dei Comuni sotto la sua egida. Al tempo la famiglia sarebbe stata retta da Salvatore Lupo, ma era ritenuto troppo giovane, serviva qualcuno di più alto spessore. Spessore conferito anche dalla genealogia di cui poteva vantarsi Damiani, il nome che metteva d’accordo tutti, secondo i carabinieri. Il nuovo corso, targato appunto Damiani, sarebbe stato caratterizzato anche dal totale abbandono di ogni apparecchio tecnologico durante gli incontri, che avvenivano spesso all’interno di alcuni supermercati di Corso Calatafimi, a Palermo, con gli uomini d’onore che si sarebbero scambiati ordini e informazioni organizzative con le buste della spesa ancora tra le mani.
Tra i reati documentati dai carabinieri ci sono anche due tentativi di estorsione ai danni di altrettante imprese edili impegnate nella costruzione di alcuni appartamenti. Pare infatti che la nuova famiglia avesse chiesto loro un pizzo di circa 2500 euro ad appartamento e imposto l’assunzione di due imprese per la realizzazione dei lavori idraulici. I titolari delle ditte hanno poi vuotato il sacco di fronte ai militari, confermando tutto tranne il pagamento. Per questo l’accusa rimane soltanto di tentata estorsione, anche se le indagini proseguono anche in questo senso. Un metodo estorsivo che i carabinieri definiscono non violento, ma «molto penetrante. Sapevano esattamente quali parole utilizzare per fare breccia sulle ditte, tanto che provavano i discorsi prima ancora di metterli in pratica e poi si compiacevano dell’esito delle trattative». Nessuna intimidazione violenta, a parte una busta con dei proiettili fatta recapitare a un piccolo criminale non affiliato a Cosa nostra per convincerlo a mettere fine alla serie di furti nelle abitazioni monrealesi.
Insieme a Damiani, che dovrà quindi rimanere in carcere, dove sta scontando una pena a 11 anni e dove non avrebbe più avuto contatti o distribuito ordini alla famiglia; ci sono il già citato Giuseppe Lupo, trentenne, Girolamo Spina e Antonino Alamia, presunti uomini d’onore del mandamento jatino, Salvatore Billetta (Titolare di una delle società a cui è stato concesso l’appalto per la i lavori idraulici negli appartamenti in costruzione, e Antonino Sciortino, muratore che si sarebbe affiliato alla famiglia di Monreale solo in un secondo momento, con tanto di investitura formale.
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