«Di notte non puoi chiudere gli occhi. Io vengo da sei turni consecutivi in corsia. Bisogna stare sempre vigili perché nulla può essere sottovalutato. Noi, prima di entrare nelle stanze, dobbiamo bardarci con le tute, le maschere ad alta filtrazione e le visiere per proteggere la faccia. Se la curva dei contagi non si abbassa c’è il forte rischio di dovere decidere chi curare e chi no. Come in guerra». Vincenzo Longhitano, 30 anni, cresciuto tra Bronte e Adrano e a 19 anni trasferitosi a Padova per studiare, infermiere nel reparto di Terapia intensiva all’ospedale Città di Brescia del gruppo San Donato, ha accettato di raccontare a MeridioNews cosa significa combattere in prima linea l’emergenza legata al Covid-19.
Da tre settimane i casi non si fermano e quella di Brescia, dopo Bergamo, è la provincia più colpita d’Italia. I casi registrati sono 1784 e l’incremento degli scorsi giorni è stato tra i più alti in Lombardia. «I pazienti arrivano con un flusso costante, gli altri ospedali della città sono saturi. Delle volte non ci sono posti disponibili e siamo costretti a trasferirli. Si utilizza un numero unico per le emergenze messo a disposizione dalla Regione».
Tra i malati di coronavirus non ci sono solo anziani o persone già affette da patologie. Vincenzo ricorda, per esempio, il caso di un 24enne positivo. «I più colpiti, è vero, sono gli over 70 e purtroppo molte volte non riescono a farcela. In tanti che arrivano qui sono obesi». Il suo è il reparto dei casi più delicati. «Quando i pazienti positivi non hanno sintomatologie gravi vengono messi nell’area rossa dei reparti senza la necessità di aiuti per la respirazione. Altri invece hanno bisogno della ventilazione meccanica invasiva e vengono intubati». Quelli in condizioni critiche sono trattati anche con l’utilizzo di specifici caschi «che emanano alti flussi d’ossigeno per garantire la respirazione». L’apparecchiatura, però, spesso suona quando chi la indossa si muove: «Sono persone pur sempre vigili e gli spostamenti causano delle perdite d’aria. Di notte può anche capitare l’aggravarsi della sintomatologie respiratorie. In questo momento devi praticamente scordarti di riposare».
Qual è la parte più difficile del tuo lavoro? «Chi muore lo fa senza potere salutare i propri cari. Molti che non ce la fanno sono pienamente lucidi, senza nessuna incoscienza ma solo con una progressiva diminuzione dell’ossigeno che gli arriva in corpo. Facciamo anche un lavoro psicologico perché tra chi è ricoverato c’è anche chi ha tanta paura e alcuni non vogliono curarsi, in quest’ultimo caso entrano in scena gli specialisti». Con i malati c’è un rapporto particolare nonostante sia vietato dare ai parenti notizie cliniche al telefono. «In via eccezionale ad alcuni abbiamo concesso l’utilizzo dei cellulari per vedere i cari che si trovano in quarantena. Sarebbe bello, come già fatto in altri posti, avere anche dei tablet per le videochiamate».
Le soste in corsia durano pochi minuti e spesso sono demandate alla solidarietà tra colleghi. Attimi utilizzati per bere o mangiare. Ma la solidarietà arriva anche da fuori le mura dell’ospedale. «Una pizzeria di Brescia ha mandato le pizze a tutti gli ospedali della città e i figli del proprietario hanno lasciato dei disegni sui cartoni. C’erano gli infermieri con la spada che combattono il virus e delle frasi d’incitamento. Noi però non siamo eroi. Facciamo il nostro lavoro. Ma vorremmo essere ricordati anche dopo l’emergenza. Bisogna sostenere figure come le nostre, anche da un punto di vista economico. Non c’è bisogno di una pandemia per capirlo». Nei prossimi giorni Vincenzo tonerà al fronte con un pizzico di rammarico: «Gli italiani hanno sottovalutato la portata del virus. Il governo ha fatto bene ad adottare queste misure. Bisogna prendere esempio dalla Cina».
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