Sono passati quasi 12 anni dal giorno in cui due impiegati dell’Enel, intervenuti in una villetta in via delle Salette ad Adrano per verificare la segnalazione di un allaccio abusivo alla rete elettrica, trovarono il corpo senza vita della 19enne Valentina Salamone. Oggi sarà la Cassazione a pronunciare la sentenza nei confronti di Nicola Mancuso. L’uomo, sposato e padre di tre figli che all’epoca aveva avuto una relazione extraconiugale con la ragazza e che oggi ha 40 anni, è l’unico imputato nel processo per omicidio aggravato ma continua a professarsi innocente. Dopo i giudici di primo grado, anche in Appello è stato condannato all’ergastolo. Mentre resta ancora da scoprire chi sia «maschio 1», un uomo il cui dna è stato ritrovato nel luogo del delitto, insieme a quello della vittima e di Mancuso. Archiviato come suicidio, il caso è stato riaperto dopo l’avocazione delle indagini da parte della procura generale di Catania chiesta dai familiari di Valentina Salamone, assistiti dall’avvocato Dario Pastore.
I FATTI
Il 23 luglio del 2010, intorno alle 14.35, due operai trovano il cadavere di Valentina Salamone. Il corpo è impiccato a una corda appesa a una delle travi di ferro che sostengono la tettoia in lamierato nel cortile dalla villetta in via delle Salette, nella zona dei Cappuccini ad Adrano. È lì che da qualche giorno la giovane si è trasferita, dopo essere andata via di casa. Su segnalazione degli impiegati dell’Enel, sul posto arrivano i carabinieri e una dottoressa di turno alla guardia medica – visto che non viene disposto l’intervento di un medico legale – che certifica la morte per «presunta impiccagione, non presenta segni di colluttazione». La stessa, esaminata a processo, ammetterà di avere avere scritto solo dopo «una visione superficiale da lontano». Non viene nemmeno sequestrata la villetta dove la sera prima c’era stata una festa nel corso della quale Valentina aveva fatto una scenata di gelosia, aggredendo una ragazza che aveva ricevuto le attenzioni di Mancuso che con lei aveva interrotto i rapporti pochi giorni prima. Sei giorni dopo i fatti, è la famiglia a presentare un esposto. La villetta viene posta sotto sequestro e quando i carabinieri arrivano per un sopralluogo notano diverse modifiche rispetto alle foto scattate giorni prima: la casa è stata svuotata, tutto è stato ordinato ed è stata pulita la macchia di sangue che c’era sotto il corpo della vittima.
L’AUTOPSIA
L’esame autoptico sul cadavere viene eseguito il 30 luglio del 2010, sei giorni dopo la morte. Dalla relazione del medico legale emerge che il decesso è dovuto ad «asfissia meccanica violenta da impiccamento. Non è possibile, in alcun modo, stabilire una compatibilità teorica con il suicidio». A parlare, dunque, è innanzitutto il corpo di Valentina. Nei polmoni c’è un’emorragia parenchimale che si verifica in vita; tutto il corpo è pieno di ecchimosi (braccia, gambe, spalle) che hanno le caratteristiche di segni di una colluttazione. Secondo la ricostruzione dei medici legali, la ragazza sarebbe stata afferrata, strattonata, bloccata e poi messa in orizzontale e sollevata da due persone: una alle sue spalle che le avrebbe messo la corda intorno al collo, mentre l’altra la teneva sollevata dai piedi. Solo dopo la morte, il cadavere sarebbe stato sistemato nella posizione in cui è stato ritrovato per simulare un suicidio.
L’IPOTESI DEL SUICIDIO
È la prima a farsi strada nella vicenda. A causa soprattutto «dell’inesperienza e dell’incompetenza del medico generico chiamato a fare i rilievi sul luogo del delitto», come ha chiarito tre anni dopo i fatti dall’avvocato generale della Corte d’Appello di Catania Salvatore Scalia. La storia sarebbe stata archiviata come suicidio se i familiari non avessero perseverato nella ricerca della verità. Nei giorni dopo i fatti, sono diversi i componenti della comitiva di Valentina a testimoniare che più volte lei avrebbe ripetuto di volersi suicidare. Da ulteriori accertamenti era emerso che, nel 2006, quando era ancora una adolescente era stata ricoverata all’ospedale di Biancavilla per un avvelenamento da farmaci. Sarà una delle sorelle a chiarire che si era trattato di un’intossicazione per un eccesso di pillole per i dolori mestruali. Alcune delle persone che frequentava avevano poi parlato anche di altri due tentativi di cui, però, non è stato trovato nessun riscontro. Il suicidio è stato in realtà inscenato da chi l’ha uccisa che ha scelto l’impiccagione per farla passare come una scelta emulativa da parte della vittima, visto che il nonno si era tolto la vita in quel modo. Ma anni prima, quando Valentina era ancora una bambina.
GLI ACCERTAMENTI
La prova madre è quella che è stata fatta con l’aiuto di una ragazza con le stesse caratteristiche fisiche di Valentina: la giovane, alta 1,63 metri, con indosso un paio di sandali con la zeppa di otto centimetri, è stata fatta salire su una sedia come quella trovata nella veranda della villetta. Dalla sedia alla trave ci sono circa 225 centimetri, ne mancano 45 per consentire alla ragazza di arrivarci. Inoltre, il particolare nodo alla corda (a doppia cima) la vittima non avrebbe potuto farlo da sola. Usato in nautica, in equitazione e nell’alpinismo, per realizzarlo servono due mani e una posizione stabile. Un altro particolare importante sono le mani di Valentina: tra il collo e la corda che stringono forte, come a volerla allentare. Un tentativo di liberarsi dalla stretta che non si può verificare in caso di suicidio. Infine c’è la prova della goccia di sangue sulla scarpa della vittima che è in contrasto con la legge di gravità: con il piede con la punta rivolta verso il basso, la goccia non avrebbe mai potuto andare all’indietro verso il tacco. Sotto la scarpa poi vengono trovate tracce biologiche di Mancuso e di «maschio 1», un uomo di cui non è stato estratto il profilo.
LE TESTIMONIANZE
Finita la festa, Mancuso va via in macchina con altre persone. È durante il tragitto che, stando a quanto riferito da chi era in auto insieme a lui, l’imputato si sarebbe sfogato. «Era arrabbiatissimo, aveva detto che non ne poteva più, che Valentina avrebbe dovuto smetterla e che era deciso a risolvere la situazione perché gli stava creando grossi problemi». La 19enne aveva finto una gravidanza per provare a tenere legato a sé l’amante che, invece, aveva voluto interrompere la relazione dopo essere stato scoperto dalla moglie.
IL MOVENTE
Nelle motivazioni della sentenza d’Appello, per la Corte, Mancuso avrebbe ucciso Valentina Salamone spinto da «sentimenti di rancore» nei confronti della ragazza che lo stava mettendo in difficoltà. Una relazione sentimentale iniziata due-tre mesi prima e vissuta in modo diverso dai due: infatuata in modo quasi ossessivo lei, un rapporto solo di natura sessuale per lui che non aveva intenzione di lasciare la famiglia. Durante la festa della sera prima, la situazione era stata tesa con una reazione sproporzionata della vittima di fronte alle attenzioni di Mancuso per un’altra ragazza. Quando lei mette in giro la voce di essere incinta, Mancuso «non può sapere della infondatezza della gravidanza che sarebbe stata devastante per la sua situazione familiare e anche per i suoi legami in ambienti mafiosi adraniti». L’imputato, infatti, è già stato condannato come promotore e organizzatore di un’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.
IL COLLABORATORE DI GIUSTIZIA
Ed è dall’ambiente della criminalità organizza che arriva una testimonianza chiave. A raccontare di avere ricevuto una sorta di confessione da Mancuso è il collaboratore di giustizia Carmelo Aldo Navarria. All’epoca dei fatti responsabile della zona di Belpasso per conto della famiglia mafiosa catanese dei Santapaola, con Mancuso condivide la detenzione nel carcere di Cavadonna a Siracusa. È stato lui a riferire che un giorno ha visto Nicola seduto su una panchina, «aveva la testa abbassata ed era molto pensieroso, con lo sguardo nel vuoto». Alla domanda sul motivo di quell’umore, Mancuso avrebbe risposto di avere appena finito il colloquio. «Non so se tu lo sai, io sono imputato per quella ragazza che hanno trovato strangolata nella zona di Adrano. C’ho problemi con la mia famiglia, con mia moglie – avrebbe detto – perché quando accompagna i bambini a scuola c’è una certa vergogna perché si sente osservata, che la guardano per questo fatto qua». A quel punto Navarria chiede spiegazioni e – stando a quanto ricostruito dal collaboratore – Mancuso abbassando la voce e portandosi le mani al petto, avrebbe risposto: «Purtroppo. Che dovevo fare? Ma meglio la sua che io perdere la mia famiglia». Un dialogo che l’imputato ha sempre negato che sia mai avvenuto.
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