Il furto dai Messina Denaro, indaga Cosa Nostra Mafiosi intercettati: «Minchia, non c’è più rispetto»

«Non si fanno certe cose… Pezzi di merda, lì dovevate andare? Minchia, non c’è più rispetto, non c’è più niente padrino». La mattina dell’Epifania del 2017 nella famiglia mafiosa di Castelvetrano c’è agitazione. La notte precedente qualcuno è entrato nella casa di campagna di Rosalia Messina Denaro, sorella del latitante Matteo, e ha portato via diversi quadri e oggetti di valore contenuti in una cristalleria. Ci sono anche le masserizie ammassate al centro di una stanza, gli infissi divelti. Poco tempo prima, poi, la stessa donna proprietaria di casa aveva visto uscire dalla sua proprietà un mezzo guidato da qualcuno che aveva rubato delle nespole. Un’onta davanti alla quale Cosa Nostra non può restare ferma. 

Così, tra il 7 e il 9 gennaio, i carabinieri del Ros registrano una serie concitata di incontri e telefonate. Protagonisti sono il cognato di Matteo Messina Denaro, Gaspare Como (marito della sorella Bice), il suo braccio destro Vittorio Signorello, e Vincenzo La Cascia, esponente di vertice della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara. «Lo hai sentito stamattina dal giornale cosa c’è scritto?», chiede Signorello. «Ma gli dici che io già mi stavo interessando – replica La Cascia, che si attiva immediatamente, consapevole della possibilità, qualora fosse riuscito a trovare i responsabili, di ribadire la sua autorità sul territorio e all’interno del clan – appena ho sentito questa cosa già l’ho detto a uno… A vedere… Gli ho detto che si muove, ora andiamo a parlare a questo, a mio cugino vediamo cosa…».  «Non si fanno certe cose – ribatte il braccio destro di Como – Pezzi di merda, lì dovevate andare? Minchia che non c’è più rispetto, non c’è più niente padrino». A questo punto La Cascia si spinge a dare un consiglio che lascia trapelare un certo timore per uno scollamento all’interno del sodalizio: «Ma lui se non comincia a stingere i fili e fare un poco di rumore…».  

D’altronde Rosalia Messina Denaro è una donna con un ruolo chiave all’interno della famiglia: moglie di Filippo Guttadauro, reggente dell’organizzazione mafiosa sul territorio di Castelvetrano fino al suo arresto nel luglio del 2006; e madre di Francesco Guttadauro, nipote prediletto del latitante e principale riferimento della famiglia nel mandamento castelvetranese fino al suo arresto, avvenuto il 13 dicembre 2013. I sospetti dell’organizzazione si sarebbero concentrati sin da subito sugli operai di un rigattiere di Castelvetrano che nei giorni precedenti al furto aveva effettuato un trasloco di arredi per conto di Rosalia Messina Denaro. La sorella del latitante si era infatti trasferita dalla casa di campagna all’abitazione storica di famiglia, in via Alberto Mario. 

Ma le indagini interne di Cosa Nostra sono costrette a fermarsi di fronte a quelle delle forze dell’ordine. Gli appartenenti alla famiglia apprendono infatti dalla stampa che l’abitazione della donna potrebbe essere oggetto di monitoraggio con telecamere, e ipotizzano quindi che gli investigatori fossero a conoscenza di quanto accaduto. A tutt’oggi però non sarebbe stato individuato il responsabile. Altro episodio riguarda il furto di nespole nella campagna di Rosalia Messina Denaro, sempre in contrada Strasatto Paratore, a Castelvetrano. In questo caso Como sarebbe riuscito a individuare l’autore del furto, rintracciando il mezzo che era stato visto uscire dalla proprietà dalla stessa proprietaria. Due fedelissimi del cognato del latitante – Signorello e Calogero Guarino – avrebbero pure studiato un piano per incendiare il veicolo del presunto autore. Ma gli inquirenti non spiegano se l’intento sia poi stato messo in atto.

Per un caso analogo – il furto di un camion di merce diretta al supermercato Despar di Domenico Scimonelli, boss di Partanna condannato per aver fatto parte della catena di postini di Messina Denaro – fu deciso l’omicidio del presunto autore del colpo: Salvatore Lombardo fu freddato a colpi di fucile il 21 maggio del 2009. Per quel delitto lo stesso Scimonelli è stato condannato, come mandante, all’ergastolo. Condanne a 16 anni di carcere per Nicolò Nicolosi, di Calatafimi-Segesta, e Attilio Fogazza, di Salemi, ritenuti gli autori materiali. 

Salvo Catalano

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