Il fenomeno siciliano di avà, adà e arà in una tesi  «In una sola sillaba dialettale molteplici funzioni»

«Avà, finiscila! (Smettila, ndr)»; «Arà, arriere (Di nuovo, ndr)»; «Adà, davvero dici?». C’è un elemento linguistico nel dialetto siciliano che, nelle sue tre diverse varianti in base all’area geografica dell’Isola, può significare tutto e niente. Dopo il fenomeno dello mbare e la semiotica del suca, adesso è una ragazza nata ad Agrigento ma cresciuta a Genova, con il suo marcato accento del Nord, ad aver studiato la diffusione di quello che, in termini tecnici, si chiama marcatore pragmatico. «Il dialetto siciliano io non lo parlo – ammette Chiara a MeridioNews – ma ne sono sempre stata affascinata e circondata, tanto che al momento della tesi ho scelto di studiare questa particolare parola dalle molteplici funzioni». 

Da poco laureata in Lingue e culture moderne all’Università di Genova, per il suo lavoro finale ha preparato una tesi in Glottologia linguistica per analizzare l’uso e la diffusione di avà, arà e adà. «Uno dei monosillabi più utilizzati nella lingua siciliana parlata da tutti i miei parenti e amici siciliani», aggiunge Chiara. La parola, a seconda del contesto e della frase in cui viene usata, può assumere significati completamenti diversi. «Infatti, più che sull’origine del termine – precisa la ragazza – mi sono soffermata ad analizzare le percezioni metalinguistiche dei parlanti e la diffusione nelle zone dell’Isola di una variante piuttosto che di un’altra». 

Per farlo, la studentessa ha creato un questionario a cui hanno risposto 223 persone provenienti da tutte e nove le provincie siciliane. «Non solo parenti, amici e conoscenti ma anche perfetti sconosciuti ai quali sono arrivata tramite la diffusione su alcuni gruppi e pagine sui social network – continua Chiara – Unico requisito necessario e sufficiente per partecipare al questionario era essere siciliani». A partire da questo campione la ragazza ha ricostruito la diffusione e l’uso che si fa in Sicilia di avà, adà e arà. «Dalle risposte emerge che la più utilizzata delle tre varianti è avà seguita da adà, usata principalmente nell’Agrigentino. Nel Ragusano invece è molto usato anche arà». 

Una parola che si può usare da sola oppure all’inizio o alla fine di una frase, che può volere dire tutto o nulla. Anche provare a tradurla in italiano non è semplice, si va dal “dai forza” al “dai basta” ma anche al “per favore”, all'”eddai” e all'”uffa”. «Come ogni cosa che diciamo – sottolinea Chiara – ha una funzione ben precisa che però, in questo caso, dipende soprattutto dal contesto e dal tono». Convincere qualcuno a fare qualcosa, esprimere il proprio disappunto o accordo, fare trasparire un senso di sorpresa, rafforzare un concetto, mantenere accesa una conversazione o anche cambiare discorso. Tutte queste funzioni racchiuse in una sola sillaba. 

«La parte più interessante della mia ricerca – aggiunge la studentessa – ha riguardato gli esempi. Oltre l’84 per cento delle persone che ha risposto al questionario usa quella parola per convincere qualcun altro a fare qualcosa: “Avà, vai a comprare quattro granite con la brioche“, “A, posso uscire stare?”, “A, finiscila (smettila, ndr)”». Altra funzione risultata essere diffusa – con oltre il 52 per cento di risposte positive – è esprime il disappunto «come nel caso dell’esempio: “Avà, arriere (di nuovo, ndr)”. In certi casi, non serve per trasmettere una vera informazione ma come una sorta di intercalare (“Adà, davvero mi dici?”) detto nel mezzo di una conversazione per dimostrare attenzione mentre qualcuno ci racconta qualcosa».

Marta Silvestre

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