Doveva essere un giorno come un altro, quel 31 marzo 1987. Ad attendere Barbara Dettòri è un campo da tennis, dove ha preso appuntamento per le 11 per andare a giocare con suo padre, Mario Alberto Dettòri, maresciallo dell’aeronautica militare. Su quel campo, però, nessuno dei due metterà più piede. O, quanto meno, non insieme. A stravolgere quel piano è una notizia che cambierà per sempre molti destini. Segnati dalla scoperta di un cadavere trovato impiccato, qualche ora dopo, a un albero in una piazzola alle porte di Grosseto. È quello di Mario Alberto Dettòri. Suicidio, conclude subito chi indaga. La stessa morte che, anni dopo, però un giudice istruttore definirà «innaturale». Probabilmente perché quello non è un maresciallo qualunque. Radarista a Poggio Ballone, è in servizio una sera di giugno di sette anni prima. «Siamo stati noi a tirarlo giù». Lui non lo sa, ma potrebbe essere stata questa frase, detta al telefono a un collega che di lì a poco verrà tagliato fuori per sempre dal mondo dell’aeronautica, a segnare la sua condanna a morte. Perché quello che ha detto è probabilmente collegato a quello che potrebbe aver visto nel suo radar quella sera d’inizio estate. È il 27 giugno 1980, la sera della strage di Ustica.
«Siamo le vittime correlate, quelle che stanno dietro ai muri, quelle che nessuno conosce». Sono un misto di tristezza e di rabbia mai sopita le parole che pronuncia oggi Barbara Dettòri, 32 anni dopo la morte del padre e 39 dal mistero del Dc-9 dell’Itavia partito da Bologna e diretto a Palermo. «Mio padre credeva nell’aeronautica, la chiamava mamma aeronautica – ricorda lei, in un impeto di profonda tenerezza -. Lui non riusciva a sopportare questo silenzio, erano state ammazzate 81 persone: bambini, padri e madri di famiglia, potevamo esserci anche noi su quell’areo, i suoi figli, i figli di quell’altro generale o di quel funzionario ancora, chiunque. E ancora oggi parlano di un missile, come si fa? Sono talmente piena…Ho appena compiuto 49 anni e non c’è un giorno che non pensi a mio padre». A lui, a quella morte ancora avvolta nel mistero, ai suoi ultimi sette anni di vita e a quella strage senza risposte. Quella che Dettòri potrebbe aver visto in diretta, sul monitor che gli stava davanti mentre era in servizio.
«Dettòri non capisco come mai quando c’è lei il radar funziona sempre», gli diceva spesso il suo capitano, che lavorava nello stesso piano dove prestava servizio il maresciallo. «Là dentro era il migliore radarista», racconta oggi la figlia. Convinta che proprio da quell’ambiente di lavoro gli sia stato imposto quel silenzio che gli è pesato per i sette anni successivi. «Lui non lo sopportava», ribadisce oggi la figlia, che ricorda lo stato d’animo del padre dopo la tragedia del Dc-9 sparito in mare coi suoi passeggeri, i suoi silenzi, i suoi sfoghi sempre a metà, che mai spiegavano – né a lei né ad altri famigliari – cosa avesse visto sul suo radar quella notte. Anche se, forse, un modo per vederci chiaro, malgrado i 39 anni appena trascorsi, potrebbe esistere. «Le persone che quella sera erano al radar con mio padre non sono morte, sono tutte vive. È ora di farla finita di dire il contrario – dice la donna, in un accorato appello -. Qualcuno li ha premiati per il loro silenzio? O, peggio, minacciati? È per questo che sono sempre rimasti zitti?», non può non domandarsi oggi. Soprattutto rispetto a chi lei stessa incontra ancora oggi, qualcuno a messa la domenica, qualcun altro al supermercato vicino casa. «Abbiamo le mani legate», le avrebbe risposto qualcuno da lei avvicinato. Ma cosa significa?
«Se c’è qualcuno che sa qualcosa di quella notte e non ha mai detto nulla è il primo assassino di quelle 81 persone, ma anche di mio padre e degli altri ufficiali». Non è, infatti, solo la morte di Dettòri quella ancora oggi avvolta nel mistero. Nell’elenco ci sono incidenti stradali, incidenti aerei, infarti in giovane età, ambigue impiccagioni, omicidi in terra straniera ad oggi ancora irrisolti. «Tutti uccisi dai servizi segreti? – si domanda Barbara Dettòri -. Quello che so è che su quella notte si continuano a raccontare sciocchezze, sono stufa. Noi dovremmo essere protetti da chi sa e non parla, sono soldati o stanno lì per portare solo le stellette al petto? Mio padre è morto dopo sette anni di lavaggio del cervello, lo hanno spedito in Francia e massacrato di botte, era in condizioni pietose, ma forse si era arrivati al punto di non ritorno e lui doveva morire». E infatti muore, lasciando tanti dubbi e anomalie. Messe insieme dalla famiglia e dall’associazione antimafie Rita Atria, che ha presentato un esposto, poi accolto, alla procura di Grosseto per riaprire le indagine sulla sua morte, sostenendo che si trattò di omicidio. A marzo 2017 viene infatti esumata dal cimitero di Sterpeto la salma del maresciallo, è il primo atto concreto della riapertura contro ignoti del caso, di cui ancora si attendono gli esiti.
«”Alberto tu non parli con nessuno che fai casino”, pare gli dicessero i superiori – racconta ancora la figlia -. Ma chi sa e dopo 39 anni non dice niente è come i mafiosi, che ammazzano e poi vanno in chiesa a pulirsi le mani con la confessione. Tutti assassini», ripete senza sosta. Convinta che i segreti e gli occultamenti che in questi anni non hanno permesso di sapere cosa sia accaduto il 27 giugno 1980 abbiano inevitabilmente portato alla morte di suo padre e di tutti gli altri che si sarebbero trovati nella stessa posizione. «Aveva 38 anni e io ne avevo solo sedici e mezzo, lui era la mia luce, amava il mare, mi ha insegnato a giocare a tennis, era una persona a 360 gradi – ricorda oggi con dolcezza -. Lo ha trovato una coppia di coniugi in quel piazzale nel pomeriggio, aveva ancora il cartellino dell’aeronautica francese. Quella coppia non è mai stata interrogata, ma è grazie a loro che adesso il caso è stato riaperto. Dissero che quando hanno trovato mio padre il furgone non era lì, ma a cinque chilometri di distanza. Ma quando è arrivata l’arma, il furgone stava là…Se lui si è ammazzato, chi lo ha riportato indietro quel furgone? Quel giorno io ero a scuola, non ci andavo da una settimana perché volevo stargli vicina, si vedeva che non era più la stessa persona. Lui a noi non disse mai niente, tornato dalla Francia a mia madre disse solo “lo capisci che se io parlo mi ammazzano la famiglia?”».
«Io aspetto ancora che lui un giorno arrivi. Ieri una collega a lavoro ha ritardato dieci minuti e a me sono venute le palpitazioni, è stato come rivivere tutto, ho avuto la paura che fosse successo qualcosa – rivela la donna -. La prima cosa che vorrei è che la sua morte fosse dichiarata omicidio, lui è stato ammazzato. Dallo Stato, da chi gli ha messo la corda al collo e poi lo ha appeso a quell’albero, dai suoi colleghi che gli hanno voltato le spalle e non lo hanno aiutato. Mi auguro per me e la mia famiglia e tutte le famiglie legate a questa strage che si raggiunga la verità, ma quella definitiva. “Siamo stati noi, ci scusiamo”, basterebbe questo, forse. Ogni 27 giugno assistiamo impotenti a riti, speciali tv, dichiarazioni e passerelle, ma il dolore rimane e tutto quello che abbiamo passato anche. Ma io e la mia famiglia andiamo avanti a testa alta, non abbiamo niente da nascondere o di cui vergognarci».
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