Il depistaggio Borsellino e l’assenza a processo del Viminale La figlia del magistrato: «Incredibile che non sia parte civile»

«Il ministro Salvini non dovrebbe avere bisogno del mio appello per capire che si dovrebbero prendere delle posizioni chiare e precise anche nei confronti di dipendenti dello Stato». Non le manda certo a dire, Fiammetta Borsellino e a domanda risponde. Lo ha fatto intervenendo alla trasmissione Uno nessuno 100Milan su Radio 24, a proposito della decisione della giudice del tribunale di Caltanissetta Graziella Luparello di rinviare a giudizio Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. I tre poliziotti dovranno rispondere di calunnia aggravata, di avere contribuito alla manipolazione e creazione del finto pentito Vincenzo Scarantino, che per anni si è autoaccusato della strage di via D’Amelio. «Il Viminale non è parte civile di questo processo, è una cosa che ritengo incredibile, che ha rilevato anche lo stesso pubblico ministero. Questi funzionari dello Stato non solo hanno fatto delle carriere ma attualmente ricoprono i loro posti di lavoro», afferma ancora al conduttore che la incalza. «Non ci possono essere dipendenti di serie A e di serie B, chiunque sbaglia è oggetto di ordinamenti e sospensione, e in un caso del genere dovrebbe essere lecito».

Un processo, quello che partirà a Caltanissetta a novembre, di cui forse si parla anche troppo poco sui giornali. E al conduttore che le chiede «se vorrebbe sentirne parlare di più?», risponde subito: «Io credo che la sua osservazione sia giusta, visto il coinvolgimento di alti funzionari dello Stato e visto anche l’epilogo del processo Borsellino quater, in cui si è definita la vicenda uno dei più grandi depistaggi della storia, credo che ci sia stata per anni una forma di rimozione collettiva, un senso di stanchezza che probabilmente ha portato tutti a pensare che questo fosse l’ennesimo mistero nella storia del nostro Paese». Rimozione anche a dispetto dell’impegno speso soprattutto dai familiari direttamente coinvolti, che ci hanno messo la faccia e la voce. «Io sono scesa in campo in prima persona, cosa che non potevo fare prima perché certi fatti non erano processualmente accertati, mio padre ci ha insegnato che bisogna parlare quando ci sono delle verità giuridiche – dice Fiammetta Borsellino -, un’opera che io stessa ho fatto di sensibilizzazione rispetto a giornalisti e quant’altro, nella speranza che sia servita un po’ ad accendere i riflettori».

I tre funzionari, all’epoca della strage, guidati, come ripercorre la stessa Borsellino, dal superpoliziotto Arnaldo La Barbera al quale «probabilmente nessuno, neanche i magistrati, sapeva dire di no». E poi c’è quel particolare dell’aggravante di avere agevolato Cosa nostra, tirata in ballo dalla pubblica accusa durante l’udienza preliminare di due settimane fa. «Quest’opera di indottrinamento ha fatto sì che si occultasse la verità e che le indagini non propendessero verso i reali elementi non solo interni a Cosa nostra ma anche esterni alla strage – continua lei -, ricordiamoci che Spatuzza, il collaboratore grazie al quale poi è crollato l’impianto Scarantino, ha parlato di queste presenze esterne durante l’imbottimento della macchina che avrebbe dato vita all’esplosione. E la cosa più grave è il tradimento di questi funzionari, che sono servitori dello Stato, e che hanno operato tutto questo nei confronti di altri servitori dello Stato».

E le idee ormai sono chiare anche su quello che è stato per anni uno dei protagonisti assoluti delle indagini sulla strage di via D’Amelio. «Scarantino era un pupo vestito da mafioso, mai riconosciuto da altri mafiosi doc come Cancemi, La Barbera ed altri, come mafioso a sua volta, in molti confronti mai depositati o depositati in ritardo. Una persona infima che è stato vestito da mafioso e che è stato indottrinato, indottrinamento che è avvenuto attraverso un’opera di tartassamento, con la redazione di verbali precostituiti che venivano letti da Scarantino durante le udienze dibattimentali e, lo hanno dichiarato gli stessi poliziotti, dovevano aiutare lo stesso Scarantino a ripassare visto l’infimo spessore culturale dello stesso». E non si ferma: «Un uso sconsiderato dei colloqui investigativi, ne sono stati autorizzati ben dieci dalla dottoressa Ilda Boccassini, dopo il pentimento di Scarantino, cosa abbastanza strana e contro la ratio dell’istituto, perché poi gli stessi poliziotti ci sono venuti a dire che quei colloqui non erano che un titolo per entrare a Pianosa, dove si trovava in quel periodo, e dovevano servire ad effettuare compagnia allo stesso e questa affermazione non è mai stata chiarita dalla stessa Boccassini, tramite anche appelli pubblici. Tutto mi rimbalza sempre addosso».

Lei, intanto, a Caltanissetta c’è stata e, costituita parte civile insieme alla sua famiglia, ha avuto modo di incontrare i tre funzionari sotto accusa. Decidendo, d’istinto durante una pausa, anche di avvicinarli. «È stata una richiesta seppure breve di confronto che sicuramente è stata definita irrituale durante una pausa, ma ritengo sacrosanta questa necessità di un confronto con persone che devono tante spiegazione non soltanto alle famiglie, ma penso alla popolazione intera. Quello che ho registrato – racconta ancora – è stato soltanto un grande imbarazzo, un silenzio fatto di farfugliamento di parole, di frasi come “Ci sentiamo in un film, siamo dei servitori dello Stato”, ho chiesto “Ma di quale Stato?”. Ricordo che loro sono la longa manus di organi inquirenti che hanno il dovere, se non il compito principalmente istituzionale, di dirigere, coordinare, indagare. Uno di loro ha detto “Eseguivamo solo delle indagini”, ma questa non può essere una scusante. A questo punto dicano all’ordine di chi. Eseguire degli ordini illeciti non può essere una via d’uscita. E voglio ricordare che in questo processo ci sono state schiere di magistrati, di inquirenti e giudicanti, che hanno accettato questo stato di cose. Da persona poco esperta – conclude – mi rifiuto di credere che tutto questo possa essere avvenuto sotto gli occhi ignari di persone inconsapevoli che comunque avevano l’obbligo istituzionale di esercitare un controllo e coordinare».

Silvia Buffa

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