«Il colonialismo europeo è finito» Mouna: tunisina, studentessa, rivoluzionaria

Al forum del Mediterraneo, a Catania, una tunisina ha parlato di morti. Ha preso la parola e li ha salutati tutti: quelli «uccisi dalle pallottole degli agenti» in Tunisia, in Libia, in Iran, in Siria, i palestinesi e «in generale, tutti quelli che hanno lottato e continuano a lottare contro le dominazioni straniere». Mouna Weslati, ha 29 anni ed è membro dell’ufficio esecutivo dell’Unione generale degli studenti tunisini. Ha cominciato a fare politica appena maggiorenne, fresca di iscrizione all’università. A gennaio, durante la rivoluzione che ha portato alla caduta in Tunisia del governo di Ben Ali, lei era là, in piazza. Non si limitava a protestare, ma raccontava quello che succedeva sui social network e coordinava le comunicazioni degli altri giovani come lei. «Questa è la prima volta che noi studenti veniamo chiamati a un evento internazionale per parlare ufficialmente della nostra situazione», racconta.

Quali sono gli obiettivi dell’Uget?
«Ci occupiamo di prestare servizi e difendere i diritti degli studenti. I giovani rappresentano una parte consistente della società tunisina. E, tra i giovani, quelli che studiano sono una percentuale di maggioranza. Uno dei compiti fondamentali che l’Uget svolge è informare, in modo che tutti si sentano parte della cosa pubblica e capiscano che possono decidere il destino del loro Paese».

Prendete parte ai lavori dell’assemblea che elabora la nuova Costituzione?
«Purtroppo non abbiamo un ruolo ufficiale nella costituente, perché anche i partiti politici hanno fatto in modo di escluderci. Ma noi rispondiamo attraverso le mobilitazioni e le rivendicazioni. Chiediamo le stesse cose che chiedevamo durante la rivoluzione. Cerchiamo di condizionare indirettamente le scelte del consiglio, e siamo riusciti molte volte a orientarlo».

In che modo?
«Durante la rivoluzione i giovani hanno avuto due ruoli fondamentali: quello diretto, fatto della loro partecipazione durante le manifestazioni, e quello – più decisivo – di comunicazione attraverso Twitter e Facebook. Online stabilivamo le parole d’ordine, decidevamo quali erano gli obiettivi da raggiungere e ci organizzavamo. Abbiamo dimostrato una volta di saper portare un popolo in piazza, possiamo farlo ancora, per questo ci ascoltano».

Come hai vissuto le manifestazioni? Dov’eri?
«A Tunisi. C’ero ogni volta, per la strada. E poi mi occupavo della comunicazione sui social network, della diffusione delle notizie. Prima della rivolta, vivevamo in uno stato di perenne repressione antidemocratica che ci ha impedito di esprimere i nostri pensieri e le nostre convinzioni. Era una situazione alla quale eravamo abituati».

E poi tutto è cambiato.
«Sì, ma non è successo all’improvviso. Non è che il 14 gennaio ci siamo svegliati di colpo. Non è così, per nulla. C’è stato un accumulo di lotte e di repressioni, di speranze e di delusioni che durano da diverse generazioni. Eravamo studenti che discutevano all’interno dell’università e non potevano portare fuori le loro argomentazioni, né eravamo liberi nel mondo accademico. Eravamo controllati e ostacolati con tutti i mezzi da parte del regime».

Come avete fatto a superare i tentativi della dittatura di osteggiarvi?
«In realtà, è stata la dittatura a renderci più forti. Causa malgoverno, povertà, disoccupazione, divisione delle ricchezze in modo sbagliato: con una situazione del genere, il compito di contattare persone che vogliono cambiare lo stato di cose è più facile. La gente non ne poteva più. Ma noi non speravamo di riuscire a far cadere il governo, la risposta della popolazione è stata superiore alle nostre aspettative. Una sorpresa».

Hai visto nascere la democrazia nel tuo Paese.
«L’ho vista avvicinarsi».

Il ruolo dell’Europa? Siete in grado di camminare sulle vostre gambe o avete bisogno d’aiuto?
«Fino all’ultimo momento, l’Europa ha sostenuto queste dittature e non ci ha lasciato altri sbocchi oltre la rivoluzione. Cosa che poi è avvenuta. L’interferenza europea è continuata anche durante e dopo le rivolte: è una politica fallimentare che porta risultati negativi per tutte le parti in causa. I rapporti di cooperazione non possono essere limitati ai governi: il dialogo deve essere tra i paesi, tutti con uguale dignità, tutti sullo stesso livello. Il colonialismo europeo è finito, non serve più».

[Foto di Khalid Albaih]

Luisa Santangelo

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