Dal rogo all’incubo. Ripercorrere la storia di Calogero Mannino significa anche rivisitare le metafore a cui il politico democristiano ha fatto ricorso per commentare i passaggi più delicati della propria carriera pubblica. Ovvero, quelli nei quali si è trovato alla sbarra per rispondere dell’accusa di aver intrattenuto, per fini diversi, rapporti con Cosa Nostra. Così, se l’assoluzione di oggi ha determinato «la fine di un incubo», era il 2001 quando Mannino, uscito indenne dal processo per concorso esterno, salutò la sentenza con la frase: «Volevano mandarmi al rogo».
Originario di Sciacca, con una duplice laurea in Giurisprudenza e Scienze politiche, Calogero Mannino inizia la propria carriera politica nel 1961, con l’elezione a consigliere comunale della città che gli ha dato i natali. Dieci anni dopo, fa il salto all’Assemblea regionale siciliana dove, oltre a quella di deputato, riveste per cinque anni la carica di assessore alle Finanze. Nel 1976, viene eletto per la prima volta deputato nazionale nelle fila della Democrazia Cristiana. In Parlamento, Mannino siederà per i 18 anni consecutivi, trascorsi tra i banchi della Dc. Tra i principali volti della Prima repubblica, è stato più volte ministro: nel 1981 come ministro della Marina mercantile, mentre l’anno dopo viene nominato da Fanfani ministro per l’Agricoltura; una carica, questa, che Mannino riprenderà nel 1988 prima con il governo De Mita e poi con quello Andreotti, ma dopo essere stato ministro dei Trasporti nel 197 con il governo Goria.
È del 1990, invece, la scelta di dimettersi insieme ad altri esponenti del partito – tra cui l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella – come protesta nei confronti della legge Mammì in materia radiotelevisiva. Una pausa di riflessione interrotta nel 1991 quando, con Andreotti nuovamente primo ministro, Mannino diventa responsabile del dicastero per gli interventi straordinari in favore del Mezzogiorno. La carriera politica subisce uno stop con la nascita della Seconda repubblica: nelle elezioni del 1994 – quelle della discesa in campo di Silvio Berlusconi – Mannino si candida con Scudo Democratico, lista civica dai chiari rimandi ai trascorsi Dc e che, proprio per questo, cede il passo davanti al vento di cambiamento che caratterizza quella tornata elettorale. Il ritorno in Parlamento avviene nel 2006, quando fa l’ingresso a Palazzo Madama tra le fila dell’Udc, esperienza bissata due anni. Nel 2010 Mannino, dopo aver trascorso due anni all’opposizione del governo Berlusconi, è tra i fondatori dei Popolari per l’Italia di domani (Pid): formazione che entra nella maggioranza. Nelle elezioni del 2008 viene eletto alla camera dei deputati con l’Udc, all’opposizione. La carriera politica del più volte ministro democristiano registra, infine, nel 2012, l’adesione al Gruppo misto repubblicani-azionisti.
Come detto, però, è sul fronte giudiziario che il nome di Mannino negli ultimi anni è stato al centro dell’attenzione. Dopo essere stato arrestato nel 1995, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, per aver stretto un patto con la criminalità organizzata al fine di ottenere voti in cambio di favori, Mannino viene assolto in primo grado. Nel 2003 la corte d’appello di Palermo rovescia la sentenza, condannando il politico a 5 anni e 4 mesi. Due anni dopo, la cassazione annulla la decisione con rinvio. Il nuovo appello è ancora favorevole a Mannino: «il fatto non sussiste». Sentenza definitivamente confermata nel 2010 da un nuovo pronunciamento della cassazione. Ma il filone che più ha interessato le cronache giudiziarie, riguarda il coinvolgimento di Mannino nella trattativa che Stato e mafia avrebbero intavolato a inizio anni Novanta. Secondo i magistrati della procura palermitana, Mannino avrebbe creato i contatti con Cosa Nostra per raggiungere un accordo ed evitare attentati alle principali personalità politiche italiane. Accusa da cui Mannino, almeno per ora, è uscito indenne.
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