Seconda maratona sul banco dei testimoni, ieri a Bicocca, per il collaboratore di giustizia Santo La Causa. Sette ore fitte di domande da parte di accusa e difesa per l’ex esponente di Cosa nostra catanese nell’ambito del rito ordinario del processo Iblis sulle presunte collusioni tra politica, mafia e imprenditoria. Ancora una volta La Causa ha chiarito modalità di lavoro ed equilibri all’interno delle famiglie criminali etnee, soprattutto quella a cui lui apparteneva: il litigioso clan Santapaola.
I racconti dell’ex esponente criminale cominciano, su domanda del pubblico ministero Agata Santonocito, con i contatti tra l’ala etnea di Cosa nostra e quella palermitana: il filo diretto del cane sciolto Angelo Santapaola con i Lo Piccolo e le più rituali richieste di appuntamento degli altri vertici catanesi, Enzo Aiello e Nicola Sedici. Non lui, La Causa, che i Lo Piccolo non ha mai voluto incontrarli, «perché non avevo molta simpatia per i palermitani», spiega in videoconferenza. Due gli obiettivi comuni alle famiglie: «Rimettere in sesto Cosa nostra in Sicilia e gli appalti, la gestione dell’edilizia pubblica». Per raggiungerli, il clan etneo guidato da Vincenzo Santapaola stava cercando di riportare l’ordine tra i suoi stessi affiliati e rendere più efficiente e organizzato il sistema della bacinella: il fondo cassa comune alimentato dalle estorsioni alle imprese.
Le riunioni, racconta La Causa, si svolgevano sempre in posti diversi: case procurate da persone vicine all’organizzazione, ristoranti, campagne, capannoni alla zona industriale. Spesso variati per la presenza di forze dell’ordine in appostamento o semplicemente sedute al tavolo accanto al ristorante. «Il gruppo ristretto si vedeva spesso a casa del geologo (Giovanni Barbagallo ndr) – dice il pentito – Enzo Aiello ci andava anche a dormire quando a Catania c’era un po’ di maretta». Ma lui, La Causa, no. Durante la latitanza, tra il 2006 e il 2009, si teneva ben lontano dai suoi colleghi, troppo amanti del gossip. «Chiedevo loro di parlare di me con nomi diversi, come Marco. Perché chiacchieravano troppo», racconto. «In quegli incontri c’era spesso tanta gente – prosegue – come Angelo Lombardo e Pasquale Oliva». Quest’ultimo, detto u massaru secondo La Causa, imputato nel processo in corso.
«Chi era Oliva? Un affiliato – risponde La Causa – Vicino al clan dei Cursoti negli anni ’90, si è poi avvicinato ai Santapaola. Quando eravamo tutti in carcere a Bicocca lui, che stava al secondo piano, cucinava per noi al 41bis». Secondo il collaboratore, a Oliva sarebbe stato affidato il compito di gestire la sua zona di residenza, Ramacca, più Palagonia. Un ruolo delicato, che significava anche mediare con «quello che si comportava come un comandante» nella zona, cioè Rosario Di Dio, anche lui imputato. «Oliva e Di Dio, poi, erano quasi parenti per via dei figli». Il pentito si riferisce al fidanzamento di una figlia di Oliva con il figlio di Di Dio.
Ma negli affari erano ovviamente previsti anche gli imprenditori. Non importa se amici, vicini agli affiliati o uomini d’onore con un’impresa: «Tutti dovevano contribuire alla bacinella». Chiunque avesse per le mani un appalto, magari procurato da Cosa nostra stessa. Come nel caso di Francesco Pesce, secondo La Causa, amico di Enzo Aiello. Entrambi imputati in Iblis, secondo i racconti del pentito la messa a posto dell’azienda del primo non sarebbe andata subito a buon fine. «Pesce diceva che poteva dare solo 1.500 euro. Ma i soldi erano un regalo per Nitto Santapaola in persona», racconta. Lapidario il commento di un altro affiliato, nei racconti del pentito: «Cu cuali facci mi ci appresento ro ziu (Nitto Santapaola ndr) cu 1500 euro? Chi stamu cugghiendo l’elemosina?». Come minimo, gli euro dovevano essere cinquemila. «E per far calare meglio a Oliva il regalo gli sono stati promessi diversi appalti». Come quello mai realizzato, fa notare lo stesso legale dell’imputato nel controesame, del centro commerciale Tenutella.
Per chiarire la provenienza – lecita o illecita – dei patrimoni di ciascun imputato, nell’udienza di oggi il pm Antonino Fanara ha inoltrato alla corte la richiesta di varie perizie di stima e contabili. Imprese, automobili, terreni, immobili e conti correnti in parte già sequestrati – e da dissequestrare o confiscare – e in parte ancora disponibili. «Picchì non ci rici ca a perizia ta fanu supra i cambiali?», scherza, in una pausa, un uomo che ha assistito all’udienza rivolgendosi a uno degli imputati.
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