Un fitto scambio di battute tra due mafiosi. Parlano tranquilli tra le quattro mura di una villetta usata per trascorrere la latitanza a Mascalucia. Ad ascoltarli in silenzio c’è il figlio di uno di loro: un giovanotto quasi maggiorenne. Francesco Squillaci – detto Martiddina – memorizza nomi e cognomi eccellenti e, 28 anni dopo, decide di rivelarli ai magistrati con cui ha iniziato a collaborare da pochi mesi. Squillaci di strada ne ha fatta tanta. Da vivandiere del boss Giuseppe Pulvirenti a killer tra i più fidati della famiglia di Cosa nostra dei Santapaola. Oggi è un collaboratore di giustizia, sottoposto al programma di protezione dopo 25 anni consecutivi trascorsi dietro le sbarre. I suoi ricordi riemergono grazie a dei verbali inediti, i cui estratti sono stati letti durante l’ultima udienza del processo sulla confisca al patrimonio di Mario Ciancio Sanfilippo. Il potente editore ed ex direttore del quotidiano La Sicilia alla sbarra per concorso esterno in associazione mafiosa.
Perché l’autore dell’omicidio dell’ispettore Giovanni Lizzio decide di passare dall’altro lato della barricata? Il suo può essere visto come il traguardo finale dopo un lungo percorso. Iniziato qualche anno fa nel ruolo di dichiarante. Il pentito, considerato credibile dai pm, riavvolge il nastro dei ricordi fino al 2014. Anno in cui raccontò per la prima volta agli investigatori di un falso attentato che la mafia avrebbe organizzato nei confronti di Ciancio. Le confidenze adesso si allargano e non mancano dettagli mai svelati prima. A cominciare dal ruolo che nella vicenda avrebbe avuto Nitto Santapaola, capo storico della mafia catanese. «Non ho fatto il suo nome perché non ero collaboratore», spiega in un passaggio. «Il dottor Ciancio», identificato come «u patruni da Sicilia», era vicino «a lui da una vita. Era una persona molto intima perché aveva conoscenze in politica, nelle aziende e al tribunale di Catania».
Squillaci racconta della chiacchierata che suo padre Giuseppe si sarebbe fatto, tra il 1989 e il 1990, con Mangion. «Era preoccupato per le attenzioni dell’autorità giudiziaria», legge la procuratrice Cantone riferendosi alle parole di Squillaci su Ciancio. Il piano prevedeva l’organizzazione di un attentato. A deciderlo sarebbe stato proprio Mangion: «mittemuci na bumma» avrebbe detto. La scelta non sarebbe stata presa a caso, perché la villa era al centro di Canalicchio. Nella stessa zona in cui Squillaci, qualche anno, dopo si sarebbe macchiato dell’uccisione dell’ispettore Lizzio. Prima di passare all’intimidazione a Ciancio, il gruppo avrebbe anche effettuato un sopralluogo nei pressi dell’abitazione in via Leucatia. «Il problema – aggiunge il pentito – era quantificare la dose di polvere da sparo, in base alla proporzione del danno che poteva fare. Si sono fatti diversi esperimenti in campagna perché dovevamo stare attenti».
Al finto attentato, per la prima volta, Squillaci svela di aver partecipato direttamente. Nel 2014 il racconto era stato diverso e lo stesso non si era autoaccusato. «Dopo qualche settimana siamo andati con due o tre macchine io, mio padre, Carmelo Nicolosi, Pippo Mangion, i fratelli Giuseppe e Aldo Raffa e Francesco Maccarrone». Il gruppo, alcuni dei quali deceduti negli scorsi anni, sarebbe arrivato in via Leucatia intorno alle 14. «Io e Melo siamo andati verso la villa di Ciancio, c’era pochissima gente». Il candelotto, stando al racconto, sarebbe stato avvolto in una copia del giornale La Sicilia: «Quando ci fu silenzio Carmelo lo ha lanciato oltre il muro e siamo scappati e dopo un minuto abbiamo sentito l’esplosione e dopodiché abbiamo aspettato l’arrivo dei pompieri».
Ciancio, stando ai racconti del passato, non era a casa in quel 18 agosto 1990. Per il pentito ci sarebbe una spiegazione: «Era a conoscenza di questa cosa». Di fatto, stando ai ricordi dell’ex killer, subito dopo dell’esito della faccenda sarebbe stato informato direttamente Benedetto Santapaola. «La stessa sera, o l’indomani, siamo andati e mio padre gli ha raccontato che il discorso era apposto».
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