«Ci aiuta il Signore, non ti preoccupare. Siamo buoni cristiani. Purtroppo, la vita funziona così. Se la gente capisse, tutto questo non succederebbe. Il buon senso, se uno avesse il buon senso». Appena un mese fa, Antonio Chiazza parlava così. Un sentimento di arrendevolezza di fronte all’ineluttabilità delle cose umane condiviso con l’amico Pietro Fazio. All’interno di un’auto, a Canicattì, i due hanno da poco concluso l’ultimo sopralluogo, prima dell’agguato in cui, il giorno dopo, sarebbe dovuto cadere un uomo colpevole di non essersi piegato al pizzo. Il piano, a cui avrebbe preso parte nel ruolo di killer il 21enne Diego Cigna, salterà per l’intervento dei carabinieri, che prima convocheranno la vittima in caserma e poi inizieranno a far girare gazzelle nei dintorni della sua abitazione.
Da quasi una settimana Chiazza, Fazio e Cigna sono in galera. Sono stati arrestati nell’inchiesta Xidy che ha coinvolto esponenti della Stidda e del mandamento di Cosa nostra che raggruppa le famiglie di Canicattì, Ravanusa, Campobello di Licata e Licata. Chiazza, già pregiudicato per mafia, e Fazio sono ritenuti stiddari mentre Cigna un giovane a loro disposizione. Pronto a sparare e con alle spalle un arresto da minorenne, avvenuto pochi minuti prima di commettere un omicidio. Tra le accuse loro rivolte dalla Dda di Palermo c’è quella di avere organizzato un attentato nei confronti di un sensale, un mediatore tra produttori e commercianti di uva. Non avevano accettato il rifiuto davanti alla richiesta di cedere al gruppo criminale la metà dei profitti annuali. Cifre importanti se si considera che la provvigione per i sensali può arrivare anche al tre per cento per transazioni di centinaia di migliaia di euro. «Il pesce del mare è destinato a chi se lo deve mangiare», dice Chiazza, esibendosi in metafore e sottintendendo di sentirsi un predestinato.
Gli stiddari non erano però gli unici a essere interessati al settore viticolo. Le mani, Cosa nostra, ce le ha messe già da tempo, al punto che il capomandamento Lillo Di Caro aveva deciso di creare un triumvirato – formato dal capofamiglia di Ravanusa Luigi Boncori, dall’uomo d’onore di Canicattì Giancarlo Buggea e da Giuseppe Giuliana, uomo d’onore di Delia (Caltanissetta) ma vicino a Di Caro – per tenere le redini del business. Ognuno avrebbe dovuto fare riferimento a un sensale, che sarebbe stato autorizzato a lavorare tenendo bene a mente chi fossero i suoi nuovi soci. Per i produttori non ci sarebbe stata scelta se non quella di affidarsi a chi si sarebbe presentato in campagna portandosi dietro un biglietto da visita pesante. Tra i raccolti controllati da Cosa nostra ci sarebbero stati terreni a Palagonia e Mazzarone, aree del Catanese in cui cresce uva da tavola di prima qualità. «Non è dato comprendere se gli imprenditori siano vittime di vere imposizioni oppure se, grazie alla scelta dei sensali selezionati dall’associazione mafiosa, si assicurino una posizione di vantaggio sul mercato», hanno scritto gli inquirenti, rinviando a un secondo momento l’approfondimento.
I mafiosi, invece, le idee ce le avevano chiare. «Siamo come il padre con tre figli. Ma questi sensali li dobbiamo tenere a bacchetta», dice Boncori a Buggea e Giuliana. Il capomafia di Ravanusa non lesina manifestazioni di fedeltà al boss Di Caro e, al contempo, è consapevole di come dalle parti di Canicattì non basta essere uomini di Cosa nostra per non avere rivali. Gli stiddari, infatti, specialmente quelli che orbitano dalle parti di Palma di Montechiaro, da qualche tempo avevano iniziato a fare affari con l’uva, anche sconfinando in territori altrui. Il clima di fibrillazione era percepibile. «Soddisfazione agli altri non ce ne dobbiamo dare, perché se no si prendono la mano con tutto il piede», ribadisce ai soci. Gli stiddari però per tutta risposta, disattendendo le richieste degli stessi referenti di Cosa nostra a Palma, andavano con azioni di disturbo, compresi la distruzione di alcuni vigneti. «I palmesi non devono venire a Canicattì, si devono muovere dentro di loro», lamenta Boncori a Buggea. Che, dal canto suo, suggerisce di trovare un modo per far sì che ognuno possa andare avanti per la propria strada, senza pestarsi i piedi. Una diplomazia che Buggea sfoggerà anche nel trattare con uomini di Cosa nostra giunti dagli Stati Uniti per proporre una maxi-operazione di riciclaggio in Sicilia.
Tra gli stiddari interessati al commercio dell’uva ci sarebbe stato Antonio Gallea, condannato all’ergastolo per l’omicidio del giudice Rosario Livatino e, da qualche tempo, in regime di semilibertà. Gallea incontra Buggea per cercare di trovare la quadra tra le due fazioni, ma le dichiarazioni d’intenti non sempre sono sufficienti. Specialmente quando accadono fatti non graditi, come la plateale minaccia che lo stiddaro Chiazza avrebbe rivolto a un sensale, con il rischio di attirare le forze dell’ordine. «Quando si esce la pistola, la si deve uscire per usarla», ammonisce Boncori. Il capomafia di Ravanusa spera, per una volta, di non doversi arrendere all’ineluttabile destino a cui di solito portano le tensioni in ambiente mafioso. «Ci dobbiamo rispettare, non dobbiamo aprire un’altra guerra. Ne ho fatte già tre e sono stanco», dice all’uomo d’onore di Canicattì. Poi si lascia andare ai rimpianti: «Mia madre è morta e io ero latitante, mio padre è morto e io non c’ero, mio figlio è nato ed ero latitante. Ora mi devo godere la famiglia e i bambini». Un piacere durato pochi mesi, poi per Boncori e gli altri si sono riaperte le porte del carcere.
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