Un vestito di Zara, un abito Armani, una sottoveste Victoria’s Secret. Non solo beni – necessari o più o meno di lusso – ma anche un rischio per la salute del consumatore e per l’ambiente, secondo l’associazione ambientalista internazionale Greenpeace. Che ha puntato il dito dei suoi attivisti proprio sul colosso spagnolo della moda, facendolo capitolare: entro il 2020, Zara si impegna a eliminare ogni sostanza chimica pericolosa dai suoi prodotti lungo tutta la catena di fornitura. E’ il risultato della campagna internazionale Detox, lanciata lo scorso anno, e che ha portato centinaia di cittadini in diverse città del mondo a manifestare fuori dai negozi del noto marchio. Adesso, però, toccherà ai colleghi. «Se la più grande azienda della moda può farlo, non ci sono scuse per gli altri marchi che devono ripulire la loro catena di fornitura», afferma Martin Hojsík, responsabile della campagna per Greenpeace International.
Zara è l‘ottava casa di moda ad aderire al progetto – tra cui le aziende sportive Adidas, Puma e Nike – ma quella su cui maggiore è stata la pressione mediatica. L’azienda, insieme alla sua casa madre Inditex, si è impegnata a richiedere a venti fornitori e almeno 100 entro la fine del 2013 di diffondere i dati sulle sostanze chimiche pericolose. Nel rispetto del diritto all’informazione a all’autotutela non soltanto dei consumatori, ma anche di chi vive vicino agli stabilimenti. «Hanno il diritto di sapere come e quanto i fiumi sono inquinati dalle sostanze chimiche pericolose presenti nei nostri vestiti», commenta Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia. Zara, inoltre, ha promesso di eliminare in un tempo non ancora ben definito – la presenza di sostanze come alchilfenolestossilati e fluorocarburi nei suoi prodotti.
Alchilfenoli, ftalati e nonilfenoli etossilati sono infatti le sostanze trovate da Greenpeace dopo analisi chimiche svolte su 141 capi d’abbigliamento – sia per adulti che per bambini – di 20 marchi. Tra questi, oltre a Zara, ci sono altre diffuse catene come H&M e Mango; grandi marchi tra i quali Benetton, Diesel, Esprit, Gap, Armani, Calvin Klein e Tommy Hilfiger; il colosso mondiale dell’intimo Victoria’s Secret; e altri ancora. Elementi chimici che, spiegano da Greenpeace, «possono alterare il sistema ormonale delluomo e, in alcuni casi, se rilasciate nellambiente, possono diventare cancerogene». Se, ai livelli rintracciati negli indumenti, non è ancora provata la pericolosità su chi li indossa, più preoccupante è l’impatto ambientale e quindi indiretto sull’uomo.
Il sì di Zara arriva a poco più di una settimana dalla pubblicazione solo in lingua inglese – del rapporto Toxic Threads: The Big Fashion Stitch-Up da parte dell’associazione. Un documento che ha fatto guadagnare altri «315mila aderenti alla campagna, con decine di migliaia di azioni su Facebook e Twitter», fanno sapere soddisfatti da Greenpeace. Ma l’appello prosegue, rivolto soprattutto ad altri grandi marchi, come Esprit, Gap e Victorias Secret.
[Foto di Greenpeace]
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