Maglietta dei Lakers con il 24 di Kobe Bryant impresso sulle spalle e berretto in testa. Anche se per poco perché poi, un po’ per il caldo presente anche nella località protetta in cui si trova e un po’ per il fervore con cui ha replicato a tratti all’avvocato, ha scelto di toglierlo. Giuseppe Laudani ieri pomeriggio si è presentato così. Il 38enne collaboratore di giustizia è stato al centro dell’udienza del processo Gorgoni sugli interessi dei clan mafiosi nel settore dei rifiuti. Collegato in videoconferenza con l’aula Serafino Famà, Laudani è stato sentito in merito alla posizione di Lucio Pappalardo, 44enne accusato di essere il referente dei mussi di ficurinia nel territorio di Aci Catena. Uno dei Comuni – gli altri sono Trecastagni e Misterbianco – in cui il clan Cappello, con l’intercessione proprio dei Laudani, avrebbe puntato a prendere in mano l’appalto per la raccolta della spazzatura tramite l’impresa Ef Servizio Ecologici di Vincenzo Gugliemino, oggi defunto.
Laudani da oltre un decennio collabora con la giustizia, dopo avere guidato il clan a partire dall’età di 17 anni quando fu scelto dal nonno Iano, il capostipite della famiglia mafiosa. A lui si sono rivolti i legali di Pappalardo, per chiedere su quali basi si possa stabilire che il proprio assistito sia un affiliato. Il 38enne ha parlato del periodo in cui, a metà anni Duemila, da Canalicchio spostò insieme alla madre il domicilio ad Acireale. «I gruppi di Acireale e Aci Catena non si comportavano bene, mancavano di rispetto alla famiglia – ha detto -. Volevano autonomia ma mantenendo il nome Laudani, una cosa impossibile». Il collaboratore si è poi soffermato su un episodio ben preciso, riguardante un’estorsione imposta a un rivenditore di automobili, cugino di Pappalardo. «Neanche lui si era comportato bene, io andai in questo autosalone per parlarci e fargli capire che doveva piegarsi, doveva essere accondiscendente nei confronti dei Laudani. Così presi una macchina e la portai via – ha raccontato il 38enne -. A quel punto chiamò il cugino».
Laudani ha detto che in quell’occasione si ritrovò a dover ritornare nell’autosalone per una richiesta di chiarimento. Qui avrebbe trovato Pappalardo, che si sarebbe presentato, sottintendendo la parentela diretta – il padre e lo zio – con due affiliati. «Io risposi: “E io sono Pippo Laudani” e me andai». Per l’allora capo capo della famiglia quello sarebbe stato un affronto da lavare con il sangue. Laudani ha spiegato di avere pensato di fare uccidere Pappalardo e per questo di avere fatto arrivare nel giro di poche ore persone di fiducia da Catania e da Giarre. Il commando avrebbe atteso solo il via libera per entrare in azione. «Per dare un esempio e ripristinare l’educazione», ha commentato al microfono, rimanendo di spalle e seduto a terra a gambe incrociate. L’agguato, tuttavia, non si concretizzò. «Intervennero tutti per cercare di moderare la situazione, la riunione si tenne nel magazzino dei mobili di Salvatore Di Mauro», ha aggiunto.
A prevalere sarebbe stata la linea morbida e per smussare ulteriormente gli attriti sarebbe stato organizzato un pranzo. «In un ristorante che in quella occasione chiuse, c’eravamo solo noi», ha specificato il collaboratore. «Quel giorno tutti capirono che si dovevano inchinare ai Laudani, Lucio provò ad avvicinarmi Io gli dissi di stare tranquillo e che se aveva problemi con altri affiliati poteva venire direttamente a casa mia», è la ricostruzione fatta da Laudani al microfono. Dal canto loro, uno dei legali dell’imputato ha messo in discussione il fatto che Laudani potesse sapere già dal primo incontro la presunta appartenenza al clan di Pappalardo. Le voci dell’avvocato e del collaboratore di giustizia più di una volta si sono sovrapposte. «Avvocato, proprio pochi giorni fa ho preso alltri dieci anni di carcere per fatti di cui mi sono autoaccusato. Ho fatto arrestare mia zia e mio fratello, nessuno si deve permettere di intaccare la mia verità. Mi offende se lo fa», ha sbottato Laudani, venendo ripreso dal presidente del tribunale. Secondo il collaboratore, l’appartenenza del 44enne al clan dei Laudani sarebbe assodata e passerebbe anche dal coinvolgimento in traffici di droga, estorsioni, usura e anche acquisto di armi. «Con il gruppo di Piedimonte Etneo abbiamo sempre comprato diversi tipi di armi, anche bazooka», ha sostenuto il collaboratore.
Dal canto suo, Pappalardo ha sin dal primo momento affermato la propria estraneità ai fatti contestatigli. Sia per quanto riguarda l’intercessione garantita ai Cappello per fare pressioni sull’allora sindaco Acenzio Maesano, imputato e oggi presente in aula, che per la propria affiliazione mafiosa. In una delle ultime udienze Pappalardo ha chiesto di prendere la parola per fare spontanee dichiarazioni. «Non sono un associato mafioso, tutt’altro, sono un grande lavoratore, io non lavoro per vivere ma vivo per il mio lavoro – ha detto rivolgendosi al presidente del tribunale -. È da tre anni e mezzo che pago con questa ingiusta detenzione e non capisco, e non comprendo il perché sono accusato di un reato così grave, per cui ogni giorno mi domando: ma io cosa ho fatto? Alla fine l’unica risposta che trovo è quella che pago lo scotto di una parentela». L’imputato ha aggiunto anche di temere di ricevere «un verdetto pronunciato senza la conoscenza dei fatti».
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