Good, bad e new company: cos’era il sistema Pogliese Il caso Grandi vivai Sciacca e la password «topolino»

«Con questa pesantezza dell’azione della procura… Non escluderei che possano fare un monitoraggio». Antonio Pogliese si era bagnato prima che piovesse e, col senno di poi, aveva fatto bene. Nelle intercettazioni dell’inchiesta Pupi di pezza spunta la profezia: che gli uffici di piazza Verga decidessero di vederci chiaro su quella lunga serie di aziende in liquidazione assistite dal suo studio. È per questo che il notissimo commercialista catanese, padre del sindaco Salvo e titolare di uno degli studi più importanti della città, è finito agli arresti domiciliari. Le ipotesi di reato vanno dalla bancarotta fraudolenta alla sottrazione al pagamento delle imposte in relazione a diverse imprese: un castello di accuse dietro al quale si stagliano i contorni di un vero e proprio sistema. Volto, secondo l’accusa, a truffare il fisco, approfittando di un angolo cieco della normativa. Il meccanismo per funzionare – ma non sempre – aveva bisogno di un complesso di passaggi e rimandi. Il primo step, però, sarebbe stato sempre lo stesso: rivolgersi allo studio Pogliese per uscire dal guado senza portare i libri contabili in tribunale per la dichiarazione di fallimento. Il tutto semplicemente costituendo nuove società: la bad company affossata da una parte, e la new company, una good company, pronta a tenersi tutto il meglio. Compresi gli appalti pubblici.

Delle diverse imprese sui cui conti la magistratura ha voluto vederci chiaro, la più nota è probabilmente la Grandi vivai Sciacca. L’azienda che si occupa di fiori e piante e che nel capoluogo etneo è un marchio legato anche all’eccentricità del suo patron: Alfio Sciacca, maestro di gong e famoso per le sue performance artistiche d’ispirazione orientale. Lui, classe 1952, adesso è stato interdetto dall’esercizio d’impresa dai magistrati catanesi. Secondo l’accusa, avrebbe trasferito gli asset positivi della Grandi vivai (dichiarata fallita a luglio 2018) alla neonata Planeta srl, lasciando alla vecchia impresa di bandiera il compito di sparire nell’oblio della Camera di commercio portando con sé oltre un milione e duecentomila euro di debiti non saldati. Il tutto grazie alla regia di Antonio Pogliese e di Michele Catania, commercialista in servizio nello studio del papà del sindaco. 

Per i magistrati, l’azienda florovivaistica viene inserita nel sistema Pogliese alla fine del 2015: a dicembre viene nominato liquidatore della società Enrico Virgillito, il principe dei «pupi di pezza», «prestanome» per sua stessa affermazione intercettata. Appena un anno prima, la Grandi vivai Sciacca aveva realizzato la prima delle operazioni ritenute sospette: si era scissa, costituendo una nuova società: la Planeta srl, appunto, che con la precedente condivide la proprietà, il sito internet e perfino la descrizione inserita nella «biografia aziendale» online. Alla nuova azienda vengono trasferite tutte le disponibilità liquide, i crediti, automezzi, attrezzature, la quasi totalità del personale e i debiti nei confronti degli istituti bancari e di previdenza sociale. Alla precedente restano, quindi, le pendenze nei confronti dell’erario. Una serie di cartelle esattoriali che arrivano a oltre un milione e duecentomila euro e per le quali vengono presentate ben quattro richieste di rateizzazione a Riscossione Sicilia. L’obiettivo delle rateizzazioni, secondo i magistrati catanesi, sarebbe quello di evitare di essere identificati come «inadempienti» dalle pubbliche amministrazioni con le quali il vivaio voleva lavorare. Per esempio, il Comune di Torino, il cui appalto viene ceduto dalla Grandi vivai alla Planeta.

Per qualche tempo, però, due società sembrano non bastare: l’idea, supportata anche dall’avvocato al quale si rivolge Alfio Sciacca, è di scindere nuovamente la Grandi vivai Sciacca, lasciandola completamente vuota e facendo transitare i debiti nei confronti dell’erario su una terza società. Che poi avrebbe fatto richiesta di rateizzazione delle imposte dovute, salvo poi essere lasciata a se stessa e cancellata dal registro delle imprese dopo tre anni di inattività. Dissolvendosi nelle nebbie con tutti i debiti della primigenia. Il progetto, però, è un po’ troppo complesso. Ad accorgersene per primo è Michele Catania, che pone un dubbio: come realizzare una nuova scissione se non c’è niente da scindere? «Non è rimasto nulla, ci sono passività nella Grandi vivai, ci sono solo debiti», dice al legale, tentando di convincerlo che si tratta di una macchinazione perfino eccessiva. «Potremmo andare avanti col vecchio disegno…  – azzarda Catania – Potremmo cancellare senza rateizzazione». Cioè provvedere alla cancellazione dell’impresa dal registro semplicemente chiudendo la procedura della liquidazione. «Se cancelliamo, però, secondo me scoppia il putiferio con un debito fiscale di questo tipo», replica l’avvocato. «Certo», ammette il commercialista.

Problemi da risolvere, che la politica però avrebbe potuto annullare. Se solo il centrodestra avesse ottenuto la maggioranza in parlamento! «La previsione quale era – annuncia Michele Catania – che si facesse un condono serio sull’abbattimento della debitoria iscritta a ruolo. Mentre invece ci sarà questa rottamazione…». La conversazione è datata marzo 2018: nello stesso periodo, crescono anche le tensioni con Enrico Virgillito e suo padre Salvatore, che pressano entrambi per ottenere una parcella più alta per il ruolo di prestanome del più giovane. Questa, però, è una questione facile da risolvere: basta fare un bonifico per metterli a tacere, l’idea è di trasferire 300 euro. Anche per spostare una somma così piccola, tuttavia, non mancano gli intoppi. Stavolta di natura tecnologica: il portale online non riconosce la password impostata dal presunto pupo di pezza per il conto corrente aziendale. La parola è «topolino» ma il sistema si blocca. «Ma chi minchia cumminasturu? – si arrabbia Salvatore Virgillito con un dipendente di Alfio Sciacca – Ora ci vuole Enrico».

Luisa Santangelo

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