Gli inesistenti colloqui investigativi con Scarantino «Stavamo a Pianosa con lui solo per fare presenza»

Guadagna, via Roma, piazza Verdi. C’è anche villa Calascibetta. Riparte da qui il racconto di Domenico Militello, scavando nella memoria e ripercorrendo mentalmente quei sopralluoghi effettuati con Vincenzo Scarantino. Oggi sostituto commissario coordinatore alla Dia di Palermo, è all’epoca uno dei funzionari assoldati nel gruppo Falcone-Borsellino per indagare sulle stragi. Indagato per calunnia nel 2016, viene accusato insieme ad altri colleghi di quel pool di aver contribuito a imbeccare e manipolare Scarantino. Accusa che successivamente, lo scorso febbraio, viene definitivamente archiviata dalla procura di Caltanissetta. Di quei sopralluoghi, però, effettuati nei posti fatidici nei quali si sarebbe attuato il piano stragista per eliminare Borsellino, sembra oggi ricordare poco e niente.

«Mi rendo conto che è un’indagine importantissima, ma nella mia carriera sopralluoghi ne ho fatti tantissimi, non ricordo il percorso che ho fatto in quell’occasione – ripete a più riprese Militello -. Con Scarantino ho fatto solo due servizi, quando sono andato a prenderlo a Pianosa con La Barbera e quando ho sua moglie e i figli a Firenze, dopo non l’ho mai più visto», spiega all’udienza del processo a carico degli ex funzionari Mario Bo, Matteo Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati dalla procura di Caltanissetta di aver avuto un ruolo nella manipolazione del finto pentito Scarantino. «Sono certo che quella sera il dottore Bo non ci fosse. Non l’ho assolutamente visto nemmeno a Boccadifalco – ricorda però molto nitidamente Militello oggi -. La squadra mobile di Palermo era devastata da quello che era successo, La Barbera aveva disposto che nessuno alzasse mai le mani. Nessuno alzava le mani alla mobile, non esisteva, non c’era nessuno che facesse a qualcun altro una cosa del genere», aggiunge, incalzato dalle domande del controesame.

Intanto, malgrado i limitatissimi incontri, Scarantino lo tira spesso in ballo. «Su di me ha detto di tutto, ma io non l’ho proprio più visto, non capisco perché l’abbia fatto. L’unica spiegazione che mi sono dato nel tempo è ricollegato a un episodio preciso – ricorda Militello -. Una sera, quando mi trovavo a Firenze, sono venuti di corsa a chiamarmi i colleghi perché sentivano delle urla all’interno dell’abitazione di Scarantino, loro non potevano entrare, quindi ho lasciato tutto e sono andato. Scarantino andava oltre la gelosia, aveva picchiato la moglie perché aveva parlato con un funzionario. Lui impazzito dalla gelosia l’aveva schiaffeggiata. All’interno ho trovato la moglie a terra col labbro spaccato e i bambini che piangevano, l’ho cazziato pesantemente. L’unica spiegazione che mi do quindi è che lui parli di me per questo motivo, perché dopo io non l’ho proprio più visto».

Dopo di lui, ripercorrere quegli stessi ricordi tocca a Giacomo Pietro Guttadauro, detto Giampiero, oggi ispettore superiore alla mobile di Trapani, all’epoca anche lui nel gruppo Falcone-Borsellino e, prima ancora, per anni scorta volontaria per il giudice Falcone. «Facevo anche da autista ad Arnaldo La Barbera, mi alternavo con altri due colleghi, ma non ero contento di fare quel servizio, mi sarebbe piaciuto entrare in qualche sezione. Lui mi disse “resta qua un po’ con me che io poi vado via”. Resto a fargli da autista fino a dicembre ’93, poi sono andato via per sei mesi per fare un corso di formazione per vice sovrintendente della polizia di Stato». Rientra a Palermo tra il 10 e 12 giugno ’94, dopo poco va in ferie, e rientra di nuovo intorno al 20. «Pochi giorni dopo sono stato rimesso in servizio nel gruppo Falcone-Borsellino. Io facevo da addetto alla sicurezza ma collaboravo anche in segreteria. Dopo il mio rientro ho smesso di fare l’autista». Ma cosa faceva nello specifico in quel pool? «Niente», dice lui. «In che senso, guardava il muro?», chiede interdetto il pm Luciani. «Esatto», risponde secco il teste, sorridendo.

Al suo rientro in servizio, intanto, La Barbera lo avrebbe chiamato per avvisarlo che il giorno dopo sarebbe dovuto andare a Punta Raisi, lì avrebbe trovato un collega – Domenico Militello, che ha raccontato lo stesso episodio -, insieme sarebbero dovuti andare a Pratica di Mare. Lì, insieme allo stesso La Barbera, tutti e tre arrivano in elicottero a Pianosa, dove prelevano Scarantino. Rifacendo poi lo stesso viaggio per il ritorno. «La Barbera ci disse che dovevamo solo sorvegliarlo, raccomandandoci di non fare domande, suppongo sull’attività investigativa in corso, perché c’erano i magistrati che dovevano interrogarlo». Ma perché questa raccomandazione, se in quel momento Guttadauro non sa nemmeno che Scarantino ha iniziato a collaborare? Una domanda a cui però il teste non sa cosa rispondere. Quella notte stessa partono da Boccadifalco a bordo di un’auto, Guttadauro si mette alla guida, La Barbera gli siede di fianco, mentre Militello e Zerilli sono seduti dietro con Scarantino. «Io non sono di Palermo, in parte era Scarantino che diceva dove dovevo andare e i colleghi mi indicavano la strada – racconta -. Abbiamo fatto dei passaggi alla Guadagna, in zona Oreto, non ricordo se anche in via Messina Marine, via Roma, tribunale e poi siamo rientrati. Parlò anche della porcilaia, ma non ricordo proprio come ci arrivammo».

Sono i famosi sopralluoghi di Scarantino, di cui prima di lui ha parlato anche il collega Militello. E dei quali, però, Guttadauro non ricorda affatto percorsi e strade per raggiungere quei luoghi tanto significativi. «Io nel 2000 ho cancellato tutto dalla mia memoria, mi sono ritrovato vedovo con tre figli a cui badare – cerca di giustificarsi -. Ricordo che quel giro notturno dura per tre-quattro ore, siamo rientrati nelle mattinate, dopo esserci fermati a prendere qualcosa da mangiare in un bar». Rientrano a Boccadifalco, dove restano con Scarantino Militello e Guttadauro. Ma c’è spazio anche per un breve incontro tra il finto pentito e La Barbera: «Scarantino manifestava la voglia di parlare con qualcuno, si agitava, voleva parlare con La Barbera. Quando è arrivato, io sono sceso a fumare una sigaretta e Militello ha chiamato a casa dal centralino. La Barbera invece si è chiuso con Scarantino, il colloquio è durato una mezzoretta». La mattina dopo, dalle 9 circa alle 11.30-12, escono di nuovo per un altro sopralluogo, questa volta a bordo di un furgone. «Siamo andati in via Messina Marine, dove abbiamo fatto due passaggi, ho capito che si doveva visionare un luogo, un’officina, lo so perché a un certo punto ho chiesto – spiega -. Per me quelli non erano dei sopralluoghi, non c’erano foto, relazioni o altro, erano di fatto dei passaggi. Non ricordo che qualcuno abbia detto qualcosa, nessuno ha fatto domande».

«Non lo so chi è che dava le indicazioni – torna a dire -, magari le avevano già date in ufficio prima di partire. Non ricordo che Scarantino indicasse quel luogo, io non ho la minima idea di dove fosse quella carrozzeria né di chi fosse Orofino, io non ho mai detto a Scarantino “guarda che è là la carrozzeria”, e non ricordo che nessuno lo abbia detto. Anche quelli della sera prima erano stati solo dei passaggi, delle passeggiate per Palermo. E nessuno ha preso appunti». Passaggi che, nella sua carriera, a Guttadauro non capiterà mai più di fare. Scarantino viene riportato a Pianosa il 3 luglio ’94. Ad accompagnarlo c’è anche Guttadauro, che rimane lì fino al 15 luglio. E con Scarantino trascorre delle ore, dentro quel carcere di massima sicurezza. «All’inizio dovevo rimanere per quattro-cinque giorni, ma La Barbera mi disse di restare un po’ di più per riferirgli quali famigliari andavano a trovarlo per i colloqui e i magistrati – racconta -. Ci sono stati cinque-sei colloqui investigativi. Io sono un semplice operatore di polizia, se il mio dirigente mi dice di restare lì per vedere chi arriva a fare colloquio con Scarantino e riferirlo all’ufficio, io lo faccio». Un compito, ne è ben consapevole oggi, che avrebbe tuttavia potuto svolgere direttamente il personale di polizia penitenziaria. 

«Dovevo stare là per vedere se lo trattavano male, se aveva delle richieste, non avevo altri ordini. Non c’era nessuna disposizione scritta, a me le aveva date direttamente La Barbera – spiega ancora -. Se avesse voluto un panino, per dire, lo avrebbe riferito a me. Non mi vergogno di queste cose, anche se capisco che avrebbe potuto farle benissimo anche il personale della penitenziaria. Ma se Tinebra dà disposizioni a La Barbera per mandare in un carcere di massima sicurezza suo personale a fare ulteriore sicurezza, si doveva fare. Stavo lì per ore a sentire le lamentele di Scarantino sui figli, sulla sua vita di prima, sulle sigarette di contrabbando, discoteche e altro». E della strage non parlava? «No, mai – dice secco -. Non mi ha mai parlato di alcun reato, neppure di quel cognato che si chiamava Profeta. E non c’era motivo di fare alcuna relazione di servizio, cosa avrei dovuto scrivere? Noi eravamo là solo per fare presenza, questo diceva La Barbera». Guttadauro, insomma, riceve un compito e lo esegue. Non fa domande, a nessuno. E soprattutto non trova strano che quei colloqui investigativi, dicitura usata perché l’unica per poter entrare in quel posto, non siano mai di fatto dei colloqui investigativi. Perché farli allora? Perché stare tutto quel tempo lì? Non lo sa. lui non chiede, esegue e basta.

«Con Scarantino si parlava del più e del meno, gli raccontai che attività facevo prima io, del servizio di scorta fatto a Falcone. Gli dissi che prima avevo lavorato in una cantina vinicola e che avrei avuto la possibilità di lavorare in banca. Non abbiamo mai parlato delle sue dichiarazioni, parlavamo solo di cose di vita quotidiana, la moglie, i figli, cose così – dice ancora -. Lui dimagriva, ma c’era un regime rigido lì, non poteva più mangiarsi lo street food palermitano». Ma non lo descrive come qualcuno che deperisce in maniera preoccupante. «Scarantino in mia presenza non si è mai lamentato di nulla, mai parlato di minacce o percosse, anzi era lui che metteva di malumore gli altri, se si innervosiva aveva la sua pesantezza – racconta ancora Guttadauro -. Io avevo un certo timore di Scarantino, perché era una persona instabile, in alcuni momenti era tranquillo ma in altri era molto nervoso e non riusciva nemmeno a parlare, con persone così bisogna stare attenti pure a come ci si muove. Siamo stati un po’ tutti per strada, si riconosce quando uno è molto nervoso. Si alzava e si risedeva di continuo, fumava anche 200 sigarette al giorno, non stava mai fermo». 

Silvia Buffa

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